DOMENICO SIMON E LA DIFESA DELL’ISOLA: UN PROTAGONISTA DEL PRIMO PERIODO DELLA RIVOLUZIONE SARDA

Figlio di Bartolomeo e di Maddalena Delitala-Solinas, Domenico Simon nacque ad Alghero il 4 ottobre 1758.

Fu il fratello maggiore dei noti Matteo Luigi e Gian Francesco. Il padre dei tre fratelli era figlio unico di un mercante ligure, dinamico proprietario terriero, censore dell’agricoltura e suddelegato patrimoniale regio, prese parte alla stagione del riformismo boginiano e trasmise ai figli l’amore per gli studi e il gusto per le arti e le scienze.

Domenico fu un brillante studente dell’Università di Sassari da poco riformata, ebbe come maestri i gesuiti Francesco Gemelli e Francesco Cetti e si laureò in leggi nel 1777.

Due anni dopo, in occasione dell’aggregazione al Collegio di filosofia e arti dell’Università di Cagliari, pubblicò il poema didascalico in ottava rima Le piante (esiste il volume relativo a cura di Giueseppe Marci, Cagliari 2002), articolato in quattro canti corredati da erudite e aggiornate annotazioni scientifiche e storico-letterarie, espressione dell’ampio rinnovamento degli studi avviato dalle riforme scolastiche e universitarie.

Nell’estate dello stesso anno si trasferì a Torino, dove fece pratica forense e lavorò nell’ufficio dell’avvocato fiscale regio del Supremo Consiglio di Sardegna. Nominato vicecensore generale del Regno (1782), continuò a rimanere a Torino per tutelare gli interessi della famiglia in una causa di successione feudale e soprattutto per coltivare gli studi di storia patria: è di questo periodo la collezione dei “Rerum sardoarum scriptores”, pubblicata in due volumi a Torino presso la Stamperia reale (1785 e 1788).

L’opera – prima organica testimonianza dell’esigenza di rifondare la storia della Sardegna su più solide basi filologiche – riproponeva, sulla scorta del modello muratoriano, nel primo volume un classico della geografia antiquaria del XVII secolo, la Sardinia antiqua di Philipp Clüver, e nel secondo, insieme alla Sardiniae brevis historia et descriptio di Sigismondo Arquer, le fonti di storia della Sardegna edite da Ludovico Antonio Muratori accanto ad altri documenti medievali e moderni.

Nel 1785, segnalato dall’Accademia delle scienze di Torino, contribuì con le informazioni sulla lingua sarda all’inchiesta sull’origine delle lingue promossa dall’Accademia delle scienze di San Pietroburgo e dal naturalista e scienziato Pierre-Simon Pallas.

Il fallito tentativo di occupazione francese della Sardegna e le vicende del triennio rivoluzionario sardo (1793-96) segnarono profondamente le biografie dei tre fratelli.

Ma il vero protagonista del primo periodo della rivoluzione sarda fu Domenico che, ritornato nel frattempo in Sardegna, prese attivamente parte fin dal gennaio del 1793 alle riunioni dello stamento militare, quando l’antico braccio dell’assemblea rappresentativa del Regno si autoconvocò per predisporre la difesa dell’isola.

Non appena l’attività stamentaria si spostò dall’ambito militare a quello più propriamente politico-istituzionale, Domenico s’impose come uno dei più lucidi e autorevoli interpreti della tradizione parlamentare sarda, distinguendosi per il suo qualificato contributo politico-giuridico nella formulazione delle cosiddette cinque domande, la piattaforma rivendicativa da presentare al sovrano per ottenere il riequilibrio dei rapporti tra il Regno e la Dominante.

Eletto come rappresentante dello stamento militare tra i sei componenti della deputazione incaricata di sottoporre a Vittorio Amedeo III le richieste del Regno, Domenico nell’estate del 1793 partì per Torino, dove, in un clima di intrighi e aperte ostilità, i deputati attesero fino alla primavera dell’anno successivo per essere ricevuti dal sovrano.

Per Domenico, che aveva sperato in un benevolo accoglimento delle richieste della ‘sarda nazione’, le deludenti risposte del biglietto regio del 1° aprile 1794, per di più comunicate al viceré a Cagliari anziché alla deputazione, determinarono un’amara delusione.

Maturò così una delle decisioni più importanti della sua esistenza: quella di rinviare sine die il suo ritorno in Sardegna e di appartarsi dalla vita pubblica.

Dopo aver rifiutato gli aiuti della famiglia e una pensione offertagli dal sovrano, visse in povertà a Torino fino alla morte (10 gennaio 1829), conducendo un’esistenza solitaria, immerso, come ricorderà Giuseppe Manno (Note sarde e ricordi, Torino 1868, pp. 22 s.), nei suoi studi e nei fantasmi del passato.

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