L’INTERVISTA: L’ULTIMO LIBRO DI EMMA FENU (GLI SCRITTORI DELLA PORTA ACCANTO EDITORE) “IN CERCA DI TE”

Parliamo di dolore: ti va? Sì che puoi, tu puoi! C’è un bambino riccioluto e affannato per aver corso troppo sulla spiaggia, piange per una piccola ferita a un piede dovuta una scheggia di vetro nascosta tra la sabbia. Come spesso nella vita. Gli spieghi cosa è il dolore?

Parliamo di dolore, non bisogna averne paura. Ti seguirò in questa intervista con domande e riflessioni da grande uomo e narratore quale sei, facendomi largo nel bosco del verosimile, ma non posso spiegare la vita a nessuno: la si impara da soli, con l’esperienza.

Torniamo al gioco: al bambino direi che può capitare di ferirsi durante una corsa a piedi scalzi: si guarisce e si torna a correre con più consapevolezza, anche da adulti.

Un giovare seduto sull’ultimo gradino della Cattedrale di Alghero piange composto con la faccia tra le mani. Quale dolore piange? Come gli spieghi cosa è il dolore? Ho da spiegare poco a un giovane già talmente uomo da saper piangere in pubblico: posso solo ascoltarne le sofferenze, se vuole condividerle, o stargli accanto in silenzio.

Stai facendo colazione a un tavolino rotondo del bar con il tuo più caro amico: tuo padre. Caffè bombolone alla crema, ma… ma dietro di te una donna, piena di luce trafitta, già matura ma ancora con gli occhi di Cappuccetto Rosso, non si scompone e lascia che due lacrime le solchino le guance fino a bagnarle la camicetta strappata sul petto e in una manica. Ti avvicini al suo dolore, come glielo spieghi? Qui mi adiro perché non farlo, e tornare alle proprie colazioni, significa essere complici. Ci sono dolori inevitabili e altri che mai si devono sopportare. L’amore include, come tutti i sentimenti totalizzanti, una porzione aleatoria di dolore, ma una relazione tossica e violenta non ha punti di contatto con l’amore: nessuno può avere ragioni o scusanti per punirci.Se Dio conta le lacrime delle donne, dovremmo farlo tutti.

Parliamo di dolore, abbiamo detto, però estraiamolo dai contesti, ma lui (il dolore) è li, davanti a te. Bellissimo, solare eppure cattivo. Per il tempo di questa risposta gli puoi parlare. Tu lo conosci, ma non lo conosci, cosa gli dici? Il dolore lo definirei bellissimo e solare se fossi una santa mistica con le stigmate.  Non è bello il dolore e nemmeno cattivo; si accanisce contro alcuni più che con altri perché è cieco. Gli dico, parafrasando Gibran, che ha scavato abbastanza nel mio cuore per far spazio a molta gioia. Ha scavato abbastanza, ripeto: può riposarsi!

Le fonti del dolore sono dentro di noi come un fiume che sgorga da una roccia, o lo incontriamo per strada e lo adottiamo come fa lo stesso fiume, che poi quando si ingrossa, trova un arbusto e lo trascina. Hai ragione. Il dolore può essere latente e bastano le note di una canzone a destarlo, se ha il sonno leggero. A volte ci trascina, altre ci porta in salvo; a volte inonda i campi, altre benedice i germogli.

Dolore e sangue, nel tuo libro In cerca di te si incontrano in molte pagine. Il sangue ti sembra la rappresentazione teatrale del dolore? In determinati casi ne è una manifestazione tangibile più che teatrale; come nel caso di un aborto spontaneo. Eppure il sangue femminile è sacro e vitale: l’unico che non scorre a seguito di malattia o ferita, ma per rigenerare il ventre e permettere una mensile rinascita.

La speranza è un vizio? Quante volte si può cadere e rialzarsi. Quante volte si può morire e rinascere? È una sfida, un brivido che alla fine crea dipendenza? La sfidiamo per il risultato, o si nasconde anche un po’ di narcisismo? Dico in generale, non certo nella tua personale esperienza. Si può morire e rinascere infinite volte. È la vita che dà dipendenza e, se si vive davvero, bisogna correre il rischio di cadere e di trovare la forza di sperare di nuovo. Sfidiamo e ci sfidiamo per istinto di sopravvivenza.

«Ho scritto per curarmi», e poi ci sei riuscita, o scrivendo hai versato altre lacrime? Le lacrime ti portano in salvo, oppure sono la coscienza del dolore? Le lacrime sono terapeutiche, dissolvono il dolore e permettono di metabolizzarlo. Nello scrivere ho pianto e mi sono curata un poco, un poco che non è da sottovalutare. Si può forse curare un’anima del tutto e per sempre? Non lo so: io credo che ci voglia tempo, dedizione e passione per vivere bene, senza che qualche volta ci capiti di scivolare negli abissi.

In questo libro la tua scrittura è molto lirica, densa di visioni, di immagini indirizzate all’anima del lettore; è una forza espressiva che hai ricercato, o un defluire naturale dal cuore alle dita alla tastiera e al foglio bianco. E anche qui: foglio bianco e inchiostro nero, ossimoro della scrittura, sai che li hai dominati entrambi? Non avevo intenzione per pubblicare, anche se mi sono rivolta in più lettere al lettore; ho deciso tempo dopo di condividere un testo molto intimo. Ho scritto, rivolgendomi a alcune persone a me care e a tutti coloro che vorranno ascoltare, quelle verità che di solito si celano in parte per non ferire, per non essere inopportuni e sconvenienti. La società ci porta inconsciamente a dire quello che ci si aspetta da noi; per essere autentici bisogna liberarsi da questi condizionamenti. L’inchiostro e il foglio hanno dominato me: mi sono affidata a loro e hanno attutito la mia caduta.

Mentre scrivevi hai mai pensato di smettere perché ti costava troppo? Quanto costa spogliarsi e parlare con l’anima nuda? Costa troppo tacere e coprirsi come se ci si vergognasse, come se ci si condannasse a non essere ascoltati, compresi e amati. Io non mi vergogno della mia storia e sono capace di mettere a nudo il mio bisogno di sostegno più con la stesura di un libro che durante una chiacchierata fra amici in cui la mia parte più assertiva e solare pretende la luce del palco.

Qualcuno ha definito il tuo In cerca di te una confessione, un diario. A me sembra più un volo, un volo di libertà, quel volo che tu alla fine invochi. Perché non è vero che dall’alto non ci si ferisce. Ci si ferisce, eccome, e si rischia di precipitare, ma tu ci hai fatto volare. È un viaggio che si conclude in volo, ma è solo un viaggio. Ogni mattina devo decidere se aprire le ali, se librarmi nel vento o se camminare e correre. O strisciare, addirittura. Ma senza una meta che mi porta verso un nuovo obiettivo non posso stare; provo dolore.

Scrivi: «Non mi sono attribuita colpe», però leggendoti sembra che tu abbia affrontato spesso questo fantasma che si chiama “senso di colpa”. In un passaggio dici che «Il dolore ci (a te e a tua sorella, n.d.r.) ha reso capaci di assolverci». Ma perché? L’assoluzione fa pensare a un tribunale che giudica. E voi no, non dovete; il dolore sottrae al giudizio… Ma poi, più in generale, questa tua considerazione mi fa pensare che invece, molto spesso, davanti a una delusione feroce, a un fallimento “doloroso” dobbiamo tirare di scherma con il nostro senso di colpa, e non sempre si vince. Un’osservazione molto acuta e spiazzante, la tua, che mi mette davanti ai nodi della mia anima: i sensi di colpa. Sono nodi non sciolti, infatti ogni tanto stringono di più e mi contraddico allo specchio. Ci sono fallimenti di cui non mi attribuisco responsabilità, come l’infertilità, e altri per cui mi è più difficile non giudicarmi per non aver fatto tutto il possibile.Se è vero che non sono tenuta a dimostrarmi forza e rigore assoluto, se è vero che non mi addosso le colpe che altri mi proiettano, è anche vero che nell’ombra i contorni si sfumano ed è un attimo trasformare una casetta con le tende in pizzo in un tribunale.

Hai il tuo nuovo libro fresco di stampa tra le mani, la copertina accattivante, un titolo azzeccato che promette molto: lo guardi e ti chiedi a che punto della tua vita sei arrivata, qual è il  titolo del prossimo capitolo? Sono in cerca di tanto e vorrei essere arrivata a qualcosa che mi pacifica; invece punto bandierine sulle tappe e isso la mia pietra sul monte come Sisifo. Sono in cerca di una Emma più libera e alata, che lasci le pietre indietro e viaggi senza valigie metaforiche: il mio cuore è grande e contiene tutto ciò che mi serve.

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