LUOGHI DAL FASCINO INFINITO: ALLA SCOPERTA DEL PARCO STORICO ARCHEOLOGICO DI SANT’ANTIOCO (SECONDA PARTE)

La seconda puntata del reportage realizzato al Parco storico archeologico di Sant’Antioco (SU) è dedicata al MAB – Museo archeologico “Ferruccio Barreca” e al Tofet. L’operatrice turistica Daniela Dessena ha ripercorso per i nostri lettori la storia del Museo archeologico, realtà museale che accoglie un’ampia gamma di reperti provenienti dall’isola di Sant’Antioco, e del tofet, santuario fenicio-punico che ha restituito circa 3500 urne e 1500 stele.

Sig.ra Dessena, il Museo archeologico “Ferruccio Barreca” – MAB di Sant’Antioco è una delle realtà museali più importanti di tutto il Mediterraneo per quanto riguarda l’archeologia fenicio-punica. Quando e in quali circostanze è stato fondato? Il Museo archeologico di Sant’Antioco è intitolato a Ferruccio Barreca, soprintendente archeologo che ha condotto diversi scavi in quest’area. Si iniziò a costruirlo nei primi anni ’70, epoca in cui a Sant’Antioco venivano alla luce tanti reperti per le prime indagini archeologiche nell’area della necropoli e in quella del Tofet. Mancavano, però, gli spazi in cui poterli esporre. Così, vicino al Forte Su Pisu nacque lAntiquarium, che inizialmente accoglieva i reperti che venivano via via ritrovati, e in un secondo momento divenne il primo museo archeologico di Sant’Antioco. Dopo alcuni anni non era più sufficiente nemmeno l’Antiquarium, così la sala espositiva venne spostata all’ex Monte Granatico, dove rimase fino al 2005. I reperti, però, diventavano sempre numerosi, era necessario avere un museo più grande. Negli anni ’70 si pensò quindi di realizzare un museo vero e proprio e poco dopo cominciarono i lavori. Nel 2005 il Mab fu ultimato e allestito e nel mese di gennaio del 2006 venne inaugurato. Fu finanziato con i fondi della Cassa del Mezzogiorno. Oggi è considerato uno dei più importanti musei del Mediterraneo per quanto riguarda l’archeologia fenicio-punica. Tutti i reperti che vi sono esposti, provenienti solo da Sant’Antioco, l’antica Sulky, sono originali, non vi sono riproduzioni; le uniche riproduzioni sono quelle dei modellini di navi della marineria cartaginese, esposte nell’ultima sala.

Come è strutturato il percorso museale? I nuclei topografici principali vengono ripartiti nelle tre diverse sale espositive: nella prima sala sono esposti i reperti provenienti dall’abitato, nella seconda quelli provenienti dalla necropoli e infine nella terza quelli provenienti dal tofet. I reperti provenienti dall’abitato sono in numero limitato rispetto a quanti potrebbero essere in realtà per un motivo: purtroppo l’antica città di Sulcis per diversi secoli, dal 1350 al 1750 circa, è stata disabitata, si tornava nell’isola solo in occasione della festa di S. Antioco. In quei secoli di abbandono l’antica città venne ricoperta dalla vegetazione. Quando, durante il ripopolamento, si ricominciò a costruire, sotto il dominio sabaudo, si costruì sopra l’antica città, per cui non è stato possibile recuperare l’antico abitato. L’antica cittadina nel periodo più florido contava circa 10000 abitanti.


Che tipo di reperti provengono dall’abitato? Nella prima sala troviamo reperti che risalgono al periodo prenuragico, che va dal 3000 al 1600 circa a.C.: punte di freccia in ossidiana e selce, ceramica le cui incisioni venivano realizzate spesso con le conchiglie, ciotole e scodelle modellate manualmente, un bronzetto di un arciere nuragico che arrivò a Cleveland, nell’Ohio, e tornò a Sant’Antioco nel 2009. Alcuni reperti provengono dall’abitato fenicio. Quando i Fenici arrivarono nell’isola, intorno al 770 a.C., l’isola era abitata dal popolo nuragico, non vi furono scontri tra Nuragici e Fenici, ma verosimilmente relazioni pacifiche testimoniate da reperti che risalgono al periodo dell’unione dei Fenici che arrivarono dal Levante con i Nuragici che già abitavano nell’isola. Dallo strato fenicio dell’abitato provengono reperti risalenti al periodo che va dall’VIII al VI sec. a.C. Una vetrina accoglie reperti di età punica, quindi risalente al periodo che va dal VI al III sec. a.C.: manici di coltelli in osso, un cuore che veniva utilizzato come ornamento per abbellire i vestiti, corna di cervo, che venivano impiegate come chiavistello, i dadi, utilizzati come elementi ludici, una scapola di cavallo o asinello utilizzata per ricavare i bottoni, cerniere dei mobili, scarti di fusione, un grande piatto che veniva utilizzato per preparare la semola per il cous cous, un bacile, un contenitore per cibi liquidi, piatti, mandibole di pecora e di maiale, una sorta di pentola a pressione dell’epoca con lo sfiatatoio per far uscire il vapore, il busto di una bambolina, ceramica attica.

Cosa ci dicono tutti questi reperti degli scambi commerciali dei Fenici? Questi reperti testimoniano gi scambi commerciali dei Fenici con il resto del Mediterraneo. I Fenici raggiunsero le Colonne d’Ercole, lo Stretto di Gibilterra, dove fondarono Cadice, ma andarono anche oltre. La meta principale dei Fenici era proprio l’Iberia, perché vicino allo Stretto di Gibilterra avevano trovato ricche miniere d’oro e d’argento. Avevano navi meravigliose, costruite con legno di cedro, di cui erano ricchi i boschi del Libano. Affrontavano viaggi lunghissimi, quindi erano obbligati a fare delle soste; è così che nascevano le colonie fenicie. La prima e più importante colonia fu Cartagine, in Nordafrica, fondata nell’814 a.C. In Sardegna, invece, è molto probabile che la colonia di Sulky sia stata la prima ad essere fondata, concomitante con la fondazione di Nora. Sulky si presentava al centro di quelle rotte che conducevano all’Iberia; al ritorno dall’Iberia ci si fermava qui prima di toccare nuovamente le coste nordafricane, quindi questa colonia rappresentava un utilissimo punto d’approdo. In ogni luogo in cui sostavano, i Fenici prendevano oggetti che portavano qui, o in Spagna, o in Sicilia o altrove, e che scambiavano con altri prodotti. Per questo a Sant’Antioco e nelle altre colonie fenicie troviamo reperti greci, egiziani e via dicendo.

Ci sono ritrovamenti risalenti all’epoca romana? Sì, certo, poiché nel 238 a.C. la Sardegna cadde sotto il possesso militare di Roma. La Sulky fenicia, Sulci punica, divenne la Sulcis romana. Tra i reperti del periodo romano provenienti dall’abitato, abbiamo un braciere che conteneva la brace per riscaldare gli ambienti, alcuni stampi utilizzati da un artigiano per realizzare probabilmente gli oggetti che vendeva, lamine in oro, un piccolo specchietto da borsetta, due bruciaprofumi. Invece i famosi leoni di Sulci, due statue leonine ritrovate nel 1983 ai piedi dell’arena dell’anfiteatro romano, non sono di età romana, bensì punica, verosimilmente datati al IV sec. a.C., periodo in cui i Cartaginesi, dopo aver subito attacchi da parte di altri popoli, fortificarono tutte le loro colonie e l’antica Sulci fu racchiusa all’interno di mura urbane. Ai piedi della porta urbana i Cartaginesi misero queste due statue, che probabilmente piacquero ai Romani i quali le spostarono e le misero ad abbellire il loro anfiteatro. Quanto ai reperti che provengono dallo strato romano dell’abitato, alcuni sono di uso quotidiano, altri invece venivano usati per le occasioni più importanti; bellissimi anche gli oggetti utilizzati per la tessitura. E inoltre un mosaico risalente ai primi secoli dopo Cristo, quindi al periodo imperiale, in origine molto più grande, costituiva il pavimento di un triclinium, che era la sala adibita ai banchetti: vi sono rappresentati due felini e un kántharos da cui fuoriescono i pampini della vite.

La seconda sala è dedicata alla necropoli. Quali reperti possono ammirare i visitatori? Nella seconda sala ci sono alcuni dei reperti provenienti dalle tombe puniche. Non sono tutti quelli ritrovati, perché ne sono stati ritrovati davvero tanti e non c’è lo spazio per esporli tutti. Tenga presente che sono stati indagati circa 80 ipogei, ma gli ipogei erano molti di più: la necropoli si estendeva per oltre dieci ettari e contava oltre 1500 tombe a camera. Nel 2007 una squadra di archeologi guidata dal dott. Bernardini scoprì e indagò una bellissima sepoltura all’interno della quale furono rinvenuti una quindicina di sarcofagi in legno. All’interno dell’ultimo sarcofago indagato trovarono un altro sarcofago scolpito e dipinto, con una raffigurazione femminile che ha portato la sepoltura ad essere definita “Tomba della dea alata”. L’immagine femminile della scultura che stava all’interno di questo sarcofago aveva il braccio sinistro poggiato sul petto, mentre teneva dei rotolini all’interno della mano destra. Il sarcofago è dipinto con i tipici colori utilizzati dagli egiziani nelle loro decorazioni: il turchese, il rosa, il giallo, il verde acqua, il rosso. Nel 2004, invece, durante i lavori di rifacimento delle condotte idriche del paese, in pieno centro, fu rinvenuta un’altra tomba a camera colma d’acqua. Una volta prosciugata, vennero alla luce tanti reperti, ora esposti in una esedra, della stessa tipologia di quelli esposti nelle altre vetrine: grandi anfore utilizzate per il trasporto delle derrate alimentari sulle navi, e che all’occorrenza venivano utilizzate come anfore cinerarie, tagliate nella parte superiore, in periodo romano vi venivano inseriti i corpi di bambini o di ragazzi; anfore più piccole usate per contenere acqua e vino, carne salata, e altri cibi che sarebbero stati utili al defunto per cibarsi nell’aldilà, ciotole, coppe, brocche con orlo a fungo, brocche bilobate, lucerne, ed alcuni gioielli.

In cosa consisteva il rituale funerario? Cosa non poteva mancare nelle tombe? Il rituale funerario consisteva nel lavare il defunto, profumarlo con oli e balsami, adornarlo con i suoi gioielli e deporlo all’interno della sepoltura. All’interno di questa veniva montato il sarcofago in legno e qui veniva adagiato il corpo del defunto. Una volta chiuso il sarcofago, veniva sistemato il corredo, che si suddivideva in corredo funerario, cioè oggetti che venivano utilizzati durante il rituale funerario, e corredo di accompagnamento, ovvero gli oggetti che venivano lasciati nella sepoltura per accompagnare il defunto nell’aldilà, quindi tutto ciò che gli sarebbe stato utile per proseguire la vita ultraterrena. Ancora oggi, nelle tombe inviolate, gli archeologi ritrovano questi reperti. Nelle tombe sono sempre presenti anche le lucerne che illuminavano la stanza agli affossatori durante il rituale funerario, e le brocche con orlo a fungo, che venivano usate per spargere oli e balsami sui corpi dei defunti. È attestata anche la presenza di maschere e di oscilla, che garantivano ai defunti, e spesso anche ai vivi, la protezione dagli spiriti maligni.

Sono stati trovati anche molti amuleti egiziani… Sì, in una vetrina sono esposte decine di amuleti che rappresentano divinità adorate dagli egiziani: il dio Bes, nano deforme; Iside seduta in trono che allatta Horus; la dea Tueris, ippopotamo che proteggeva le gestanti e i bambini; la dea gatta Bastet, assimilata ai culti lunari. Ci sono poi una protome egittizzante e tanti scarabei, tipici amuleti egiziani, simbolo di rinascita, tra i quali, uno in particolare, in cornalina, rappresenta Eracle ed è incastonato nell’oro.

Una intera vetrina è dedicata quasi esclusivamente ai gioielli, indossati spesso anche dagli uomini, che offrono un’eloquente testimonianza della ricchezza della civiltà fenicio-punica a Sulci. Gli Athyrmata, come sono definiti dai Greci, vengono rinvenuti in numeri ed esemplari molto importanti nella Necropoli di Sulci: anelli crinali in oro, usati per fermare le trecce e le code dei capelli, orecchini aurei per lobi e naso, collane e bracciali in pasta vitrea policroma e pendenti e anelli in ambra, bottoni in osso, bracciali rigidi o in vaghi d’oro, un anello meraviglioso, ritrovato qui a Sant’Antioco e chiamato “fede punica” o “fede di Sant’Antioco”, un altro anello usato come sigillo, un portagiudizi. E ancora uno specchio in bronzo e zanne di cinghiali utilizzate dai gioiellieri per realizzare i gioielli. Le officine orafe si trovavano sicuramente nella zona di Tharros, ma non è escluso vi fossero anche a Sulci. Si trattava sicuramente di una società molto benestante. Come si è detto, questo era uno dei centri più abitati e fiorenti di tutto il Mediterraneo, una cittadina di circa 10mila abitanti.

Cosa ci dicono queste testimonianze archeologiche delle convinzioni religiose del popolo punico? Parliamo di popoli, e di un periodo storico, la cui religione era di tipo politeista. Le principali divinità del pantheon fenicio-punico erano Baal Hammon e Tinnit, le due supreme divinità maschile e femminile. La divinità della necropoli era invece Baal Adir. Ci si richiamava molto anche alla religione egizia.
Quali tipi di sepolture risalgono al periodo romano? Al periodo romano risalgono diversi tipi di sepolture. Innanzitutto le urne cinerarie, che contenevano i resti dei romani che venivano cremati, erano posizionate all’interno delle ipogei cartaginesi, negli spazi non occupati dai sarcofagi, e quindi solitamente ai piedi del tramezzo di fronte all’ingresso della sepoltura. In periodo imperiale successivo, invece, sono attestate le sepolture ad enchytrismòs, anfore tagliate nella parte superiore per poter inserire il corpo dei bambini o dei ragazzi, e poi richiuse, oppure tombe alla cappuccina, molto povere di corredi, e urne, anfore e brocche cinerarie. Tra i corredi delle tombe alla cappuccina abbiamo quello detto “della Venere Bionda”, quasi sicuramente appartenuto a una ballerina, dato il ritrovamento di cembali utilizzati come nacchere spagnole e di porta creme o porta profumi in vetro soffiato. Dello stesso periodo è possibile ammirare anche teste di toro a rappresentare il culto del dio Mitra, askoi e una statuina di Mercurio.

Una coppa appartenente alla collezione Lai è particolarmente importante. Per quale motivo? La collezione Lai consta di alcuni campanellini suonati durante i rituali per richiamare l’attenzione delle divinità, di centinaia di amuleti, di meravigliose collane in pasta vitrea, pasta vitrea policroma e cristallo di rocca, ma sicuramente il reperto più importante è l’orlo in argento di una coppa, anch’essa in argento, su cui è incisa una iscrizione in caratteri punici, in cui viene descritta la “giunta comunale” della città e, importantissimo elemento, viene proprio nominata la città, Sulky, e l’oggetto dell’offerta, appunto una coppa da libagione del peso di 59 shekel, che corrispondeva a circa 450 gr.

Arriviamo al Tofet di Sant’Antioco, uno dei siti più visitati di tutta la Sardegna. Si è sempre pensato che nei Tofet venisse praticato il sacrificio dei bambini. Quando e come si capì che il Tofet, in realtà, era un cimitero per bambini morti per cause diverse dal sacrificio e, quindi, di morte naturale? Oggi i Tofet visitabili sono tre: oltre a quello di Sant’Antioco, c’è quello di Mozia, in Sicilia, e quello di Cartagine, in Nordafrica. Il Tofet è un santuario fenicio-punico, un cimitero per bambini morti naturalmente in età prematura, quindi una necropoli infantile ad incinerazione, utilizzata dai Fenici prima e dai Cartaginesi dopo, a Sulky a partire dal 770 a.C. fino al 50 a.C., quindi utilizzato per circa 700 anni. Fino a qualche decennio fa si pensava che il Tofet fosse un’area sacrificale, un luogo dove Fenici e Cartaginesi sacrificavano i figli primogeniti maschi delle famiglie aristocratiche. Si pensava che dopo il sacrificio i bambini venissero bruciati e che i loro resti ossei venissero conservati all’interno di urne cinerarie. Si arrivò a questa teoria basandosi su alcune frasi dell’Antico Testamento, in cui il Tofet veniva descritto come un luogo vicino a Gerusalemme, nella valle di Ben Hinnom, dove i Cananei facevano passare attraverso il fuoco i loro figli e le loro figlie. Quando, nel 1921, venne scoperto per la prima volta il Tofet di Cartagine, gli archeologi pensarono fosse il Tofet menzionato nell’Antico Testamento e da alcuni autori classici. Intorno alla metà degli anni ’50 venne indagato per la prima volta il Tofet di Sant’Antioco, mentre alcuni anni dopo, alla fine dello stesso decennio, alcuni studenti di una facoltà di Medicina statunitense si recarono a Cartagine per effettuare degli esami osteologici sulle ossa che si trovavano all’interno delle urne cinerarie di quel Tofet. Nel ’61 vennero pubblicati i risultati dello studio: l’80% delle urne esaminate conteneva resti di feti, quindi di aborti, di bambini che non avevano portato a compimento la vita intrauterina; il restante 20%, invece, conteneva resti di bambini morti al momento della nascita, oppure nei primissimi giorni o mesi di vita. Non si poteva, dunque, trattare di bambini vittime di sacrifici, ma di bambini morti prima di nascere, quindi si capì che il Tofet non era un’area sacrificale, ma un’area cimiteriale. I bambini venivano bruciati, nonostante fossero già morti per cause naturali, per evitare epidemie e infezioni e per purificarli, e i loro resti ossei venivano poi conservati nelle urne, che venivano deposte nel terreno. Il Tofet era destinato però soltanto a bambini e bambine privi di identità sociale, cioè deceduti prima di aver ricevuto l’iniziazione, quindi prima di essere diventati cittadini. Oggi, all’indomani degli esiti degli esami osteologici, possiamo affermare che questo popolo di Fenici e Cartaginesi, che dai Romani veniva descritto come un popolo di sacrificatori, in realtà era un popolo che aveva una cura e un’attenzione estreme e particolari anche per i feti, al fine di assicurare loro una degna sepoltura.

Nel Tofet di Sant’Antioco accanto alle urne sono state ritrovate molte stele. Qual è il loro significato? Le urne cinerarie venivano deposte nelle spaccature naturali della roccia o del terreno, così che le anime degli infanti deceduti prematuramente dimorassero vicino al dio Baal Hammon, suprema divinità del Tofet, per l’eternità: la roccia era la dimora della divinità. La maggior parte delle urne veniva deposta a est perché a est sorgeva il sole, rinasceva il sole ogni giorno, e i genitori speravano che i bambini, così come il sole, rinascessero nella vita ultraterrena. All’interno, o accanto all’urna, i genitori adagiavano ceramica in miniatura, il corredo di accompagnamento nell’aldilà per i bambini. Le urne ritrovate sono circa 3500, ma oltre a queste sono state rinvenute anche circa 1500 stele. In una fase avanzata della vita del santuario, infatti, con l’arrivo nell’isola dei Cartaginesi, intorno alla fine del VI sec a.C., accanto alle urne iniziarono ad essere deposte le stele, che rappresentavano il ringraziamento dei genitori del piccolo defunto alla divinità per avergli dato il dono di una nuova nascita e, dunque, la prosecuzione della propria discendenza. La stele veniva deposta accanto all’urna che conteneva i resti ossei dell’altro figlio, purtroppo deceduto prematuramente. I reperti provenienti dal Tofet qui esposti rappresentano solo una minima parte di tutti i reperti lì rinvenuti, la maggior parte dei quali è conservata nei magazzini del Museo e della sede locale della Soprintendenza, mentre molto altro è andato perduto, molto rubato e molti altri reperti sono invece ancora da recuperare.

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