di Sergio Portas
Quando per una vita si lavora coi ragazzi è dura staccarsene di botto. Per evitare ogni trauma che potesse venirmi dal “tempo vuoto” della pensione, ho pensato bene di ritrovarmi uno spazio che mi riportasse in un ambiente simile ai laboratori di chimica dove ho insegnato per più di un trentennio: ogni giovedì mattina quindi me ne vado all’ospedale “Besta” di Milano, reparto neuropsichiatria infantile, c’è uno spazio attrezzato tipo “sala giochi”. Come ogni insegnante ben sa anche qui si recita a soggetto. Gli attori ( da sei mesi a diciotto anni) si portano dietro malattie le più rare e invalidanti di questo mondo ma, essendo in quell’età che prevede un futuro possibile lungo di al massimo qualche settimana, se ne fanno un cruccio relativo e, come tutti i bimbi di questo mondo, vorrebbero solo giocare. I volontari dell’ABIO (associazione bambini in ospedale, che sta in piedi anche col 5 per 1000) sono lì per quello. E anche per dare “aiuto psicologico” ai genitori che vengono da ogni parte del mondo e, capita, talvolta non trovano neanche il tempo per andare a bersi un caffè a metà mattina. Chi ha avuto a che fare con un bimbo autistico sa di cosa vado parlando. Orbene resta evidente che qui arrivano a chiedere lumi e cure soprattutto quei pazienti che non trovano strutture simili nelle loro terre d’origine. Insomma dove la sanità è di serie B, o anche C e anche zeta. Non sta a me dire in che girone giochi, in questo campo specifico, la Sardegna nostra, fatto sta che spesso e volentieri mi capita di imbattermi in bimbi che vengono dall’isola, e nei loro genitori. Come sento il loro inconfondibile accento faccio finta di essere un mago e chiedo loro da quale parte di Sardegna vengano, Martina (nome di fantasia) risponde sempre: da Cagliari. In realtà vive a Quartu Sant’Elena e oramai saranno sette anni che periodicamente viene qui per esami, diagnosi, cure. Mentre facciamo una partita a “Memory” ( un gioco impossibile con duecento carte coperte che si girano e si dovrebbero memorizzare di posto) mi racconta del suo nuovo cavallo, a nome “Gioghitta”. Quello di prima, un pony che rispondeva al nome di Poison (pronuncia puasòn, veleno) l’hanno pensionato (anche lui!) presso la comunità l’Aquilone, dove si recuperano alla vita normale ex tossicodipendenti. Dice mamma Marisa che è una struttura splendida, in campagna, hanno l’orto,una serra, galline e asini e cavalli, Poison lì si trova benissimo, ogniqualvolta lo vanno a trovare tornano cariche di uova fresche e di verdure le più biologiche del mondo. Martina, che soffre di crisi epilettiche notturne (meno male che almeno non sbatte mai la testa per terra) viene qui dal 2004, ora che è in prima superiore all’alberghiero ha messo su qualche chilo, sette anni fa pareva uno scricciolo tutto ossa e occhi spalancati sul mondo. Capelli di sarda: neri come la pece. Mentre noi si gioca mamma Marisa mi racconta, a raffica, le ultime iniziative che ha messo in piedi nell’associazione di cui fa parte. Per avere solo una pallida idea di chi siano i soci e con quale forza d’animo portino avanti le cose riguardanti ogni malattia invalidante, basta andare su internet cercando “Genitori tosti in tutti i posti”. Ne viene uno specchio inedito anche di quanto la regione Sardegna faccia in questo specifico campo. Certo occorre pungolare l’assessore di turno. Mi dice Marisa che quello attualmente in carica, il desulese Liori, ogni volta che se la trova dinanzi nei congressi e nelle assemblee viene preso da scoramento. Lei è anche nel comitato dei familiari per l’attuazione della 162 (la legge che regola le misure di sostegno ai portatori di handicap grave, n.d.r.) in cui sono rappresentate ben quaranta associazioni. E’ anche grazie al loro impegno, alla loro critica giustamente feroce, se l’assessorato ha rivisto le modifiche ISEI delle famiglie, modifiche che avrebbero comportato la cancellazione sic et simpliciter di servizi indispensabili per queste fasce di minori sfortunati, tipo l’educatore che ti segue a casa a fare i compiti di scuola, o l’assurda pretesa di considerare i bambini portatori di handicap da zero a tre anni come cittadini inesistenti, parcheggiati in un limbo burocratico che negava loro ogni aiuto e diritto. Il gruppo di genitori spazia dal “Monte Rosa al Gennargentu” ma quelli sardi, questa volta sono avanguardia e gruppo dirigente. A Berlino la “162 sarda” è stata premiata come buona prassi, nel 2010 sono stati approvati in Sardegna più di 28.000 progetti individuali per le persone con grave disabilità. Occorrevano 130 milioni di euro e ne sono stati finanziati 28 di meno. Una straordinaria mobilitazione di popolo ( a gennaio davanti al Consiglio regionale c’era carrozzine e striscioni provenienti da tutta l’isola) ha permesso di recuperare metà della somma. Ma la lotta non è finita per nulla. Che in questo caso un’assurda graduatoria pretenderebbe di discriminare chi già è discriminato dalla malattia. A proposito di discriminazioni, lei è qui con la sua bimba per un esame di Risonanza Magnetica a tre Tesla (il Tesla è l’unità di misura del campo magnetico), è una tecnica non invasiva, innocua perché non utilizza radiazioni e molto versatile. In Sardegna ce ne sono fino a 1,5 Tesla, quindi molto meno efficienti nello scandaglio di malattie che coinvolgono il cervello e il midollo spinale. Alle rimostranze di Marisa le è stato risposto da “fonte autorevole”che ciò accade “perché i sardi sono poco numerosi”. Secondo me, mi dice sorridendo amaro, quello di Risonanza magnetica non ne capiva un accidente. Lei invece si è fatta una istruzione a livello superuniversitario, che a questa sua Martina non dovevano essere negate le cure e le attenzioni che la medicina moderna riserva per questi casi. E non deve fare differenza essere nati a Chicago o a Quartu sant’Elena per avere le medicine all’avanguardia. Che tutti siamo figli del medesimo Dio creatore. A casa il marito che soffre di diabete è sotto l’ala protettrice dell’altra figlia più grande. Dice Marisa che come massaia non è il massimo, l’ultimo bucato della lavatrice è venuto fuori di un bell’arancione. Per amore di verità i miei si tingono di un alone di azzurro traslucido. Non c’è bisogno che mi convinca essere il mondo dei diversamente abili altrettanto fantastico che quello dei cosiddetti normali. Qui al Besta ogni giovedì ne ho conferme a iosa. Persino i non vedenti, dice Marisa, possono giocare a rugby in un’atmosfera di sogno, con un campo silenziosissimo e una palla ovale con un campanellino all’interno che ne segnala la posizione ai giocatori. Martina due volte la settimana va in palestra per il karatè. Lo pratica coi “normodotati”. Ieri mi arriva una e-mail dalla Sardegna: nelle gare regionali di Tortolì ha vinto la medaglia di bronzo nel: cito per tema di sbagliare “terza nel kumite (combattimenti) per cintura marron 1° Kiu della sua categoria”. Bellissima soddisfazione. Questi diversamente dotati sono sorprendenti per insospettabili abilità, lo dico guardando Luca (nome di fantasia) mentre risolve un puzzle con 120 pezzi, lui non ha quattro anni ancora, non guarda la figura sulla scatola del gioco ma prende le tessere deciso e compone la figura riconoscendo, mano a mano, il pezzo che manca. Non parla correttamente ma quando ha finito ci regala un sorriso che illumina tutta la stanza.
Concordo su tutta la linea, i volontari fanno un gran bel lavoro per regalare un sorriso nelle stanze degli ospedali..Inoltre quella mamma di cui si parla la conosco molto bene, smuove mari e monti ovunque si violi la giustizia sociale: la guerriera!! Martina invece è tosta esattamente come la mamma… (Sul bucato arancione però si poteva tralasciare..suvvia!! ). Una disinteressata lettrice
Bravissimi! Queste notizie mi fanno un enorme piacere! Complimenti ai volontari, alla mamma e a Martina! 🙂
splendidi…….. senza il volontariato…….molti ..specialmente i bambini…. non avrebbero futuro…..
Conosco molto bene la storia di Martina, perche’ sono il suo papà. E conosco anche queste splendide figure dei volontari fin dal primo ricovero di mia figlia all’Ospedale Besta. Prima ne avevo soltanto sentito parlare, ma poi ho avuto modo di conoscere ed apprezzare il loro insostituibile lavoro. Specie in strutture dove i pazienti sono dei bimbi,
spesso colpiti da gravi patologie e bisognosi, oltre che delle cure, anche di un sorriso. Mi ricordo ancora i primi ricoveri di Martina, quando era ancora una bimbetta. Riuscire a farle un prelievo era un problema. ci volevano 4 o 5 infermieri per tenerla ferma. Fin quando non à venuto fuori dal cappello un medico con un vestito bianco con tante palline colorate disegnate su ed un bel nasone rosso. Miracolo! Da quel momento per Martina i prelievi non son stati piu’ un problema! Ora, a 16 anni, tutto questo per Lei e’ solo un ricordo, ma io e la mamma non finiremo mai di dir loro GRAZIE!