di EMMANUELE CURTI
Poche settimane fa ero ospite del Festival Cabudannos dos Poetas, a Seneghe – paese sardo di cui porto nel cuore il lavoro delicato degli scalpellini nel decorare architravi di porte e finestre, in un lirismo che nutre l’architettura scura delle case in basalto.
Un festival giunto alla sua diciannovesima edizione, grazie all’azione instancabile di giovani cresciuti all’ombra (e alla luce) della poesia: un esercizio letterario che ha creato incredibili corti-circuiti, divenendo l’ossatura di una nuova coscienza di sé, del luogo che si abita, di un nuovo nutrimento della fragilità delle aree interne. Intorno a questa occasione nel tempo è maturata l’esigenza di “costituirsi”, di trasformarsi in luogo pensante costante durante l’anno: da qui è nata Perda Sonadora, che, grazie anche alla gestione di un bellissimo spazio in paese, è divenuto linfa, cura, occasione per tante/i giovani del paese e dei dintorni (contaminando peraltro sia il livello regionale sardo che quello nazionale).
Da lì è nato un coinvolgimento ancora maggiore della comunità stessa, grazie ad una serie di attività che sono diventati passi decisi di un paese in cammino: a Seneghe tu percepisci, nel silenzio che contraddistingue le sonorità spente dei nostri paesi, un suono nuovo di vita. Sarà sicuramente anche perché, nel periodo del festival, voci nuove colorano le strade (e le parole di poetesse e poeti diventano subito incredibili corto circuiti vivificatori): sarà perché gli ospiti vengono accolti nella case della cittadinanza che si mette a servizio del processo; ma, per chi come me è stato a Seneghe anche in un periodo della normale quotidianità, avverti che le pareti scure di basalto del paese si ricolorano, proprio perché si avverte la scossa di una comunità in movimento.
Da tre anni poi, quello stesso gruppo di giovani si è iniziato ad interrogare su di una dimensione teoricamente altra rispetto a quella culturale, quella economica: l’occasione della poesia è divenuto vero e proprio esempio di welfare culturale, dove la scossa della poiesis, del fare, ha spinto l’associazione ad interrogarsi sulle parole classiche che contraddistinguono le aree interne (abbandono, spopolamento, fuga dei giovani, ecc.), alle quali hanno risposto con la creazione di una cooperativa di comunità. Così è nata Mussura: un gruppo coordinato da un giovane enologo, Matteo Illotto, ha iniziato a lavorare su di un problema endemico di queste aree, cucendo le varie vigne frammentate del paese, gestite spesso da persone anziane, offrendo loro di prendersene cura e mettendosi a produrre, in soli 3 anni, vini di alta qualità. Agendo trasversalmente su di un approccio intergenerazionale (cura delle comunità) e sul recupero di terreni spesso anche abbandonati (cura del luogo), hanno ideato un modello unico nel suo genere.
Dalla poesia ai vigneti, il gruppo è sempre lo stesso: giovani che tornano a vivere a Seneghe, che immaginano anche nuovi percorsi (da poco tempo si stanno interrogando anche sulla rigenerazione degli uliveti), che stanno rideclinando in maniera nuova l’idea di abitare le aree interne.
In tutto questo, mentre il comune era commissariato, hanno anche candidato un progetto per l’azione del Pnrr Borghi. e hanno vinto, insieme ad un ricco partenariato, classificandosi peraltro primi per la regione Sardegna (e fra i primi in Italia). E qui inizia il racconto dolente: arriva una nuova amministrazione, che decide che il progetto così com’è non gli sta bene e prova a riscriverlo, appellandosi a burocrazie che stridono con la vitalità dell’azione di Perda Sonadora e Mussura. Un progetto che poteva, grazie proprio alla loro azione, utilizzare i fondi del Pnrr per dare nuova infrastruttura a un incredibile percorso intrapreso, fra cultura e agricoltura, si ferma, e come spesso avviene in Italia, tutto si arena fra le pratiche.
Ma questa è una storia che andrebbe raccontata meglio. Io invece uso il caso di Seneghe per dire altro, ovvero, che per assurdo sono stanco di scrivere storie come queste.
Se queste storie si fermano nel racconto di sé, se continuano a essere “pacche sulle spalle” a chi queste storie le agisce, se permangono come ciliegine luccicose su torte stantie, abbiamo perso.
Io vorrei uscire dalla microstoria (per dirla alla Carlo Ginzburg), perché invece queste pratiche diventino narrazioni” di un agire condiviso, oltre la dimensione locale: Seneghe è un laboratorio incredibile, nonostante i freni che le locali amministrazioni cercano ancora di apporre (perché nulla cambi).
Come facciamo a far sì che storia + storia + storia, ecc. diventino pratica nazionale? Come congiungiamo i tasselli? Questa riflessione deve servire per capire come uscire dalla frammentazione, costruire una comunicazione che non sia descrittiva, ma generativa (come ha scritto anche Maria Laura Conte) per trasformare le parole delle pratiche isolate, in un discorso sovraterritoriale, per entrare dinamicamente anche nel linguaggio normativo, che detta i tempi delle azioni pubbliche. E per unire i nostri mondi del welfare – spesso anche loro chiusi nei propri silos – per avviare una stagione di rideclinazione del benessere.
Una possibile proposta/provocazione: perché fra il mondo del welfare sociale e culturale (di cui Seneghe è un viva espressione), non iniziamo anche ad immaginare uno strumento come una moneta virtuale? Uno strumento finanziario che non si metta solo al servizio del processo di scambio (riattivando peraltro comunità/economie locali), ma che serva anche da cartina tornasole di quella vera Italia silenziosa del terzo settore, agendo trasversalmente, fra le migliaia di azioni frammentate che abbiamo messo in campo? Perché si possa anche tracciare il sistema linfatico che siamo: perché la moneta virtuale diventi anche un gesto simbolico di quella profonda cultura trasformata che rappresentiamo.
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