Ecoansia versus negazionismo: alla preoccupazione per le manifestazioni ricorrente del clima mutato, si contrappone un duro scettiscismo. Abbiamo incontrato uno degli studiosi italiani da più tempo impegnato, anche a livello internazionale, sul climate change
Ci sono ormai fin troppe prove che viviamo un’epoca di cambiamento climatico e la causa principale è l’uso di combustibili fossili. Eppure c’è chi lo nega, mentre altri vanno in “ecoansia”. Ma la soluzione esiste e passa da una trasformazione radicale del nostro sistema culturale e socioeconomico, con una maggiore armonia con i ritmi del pianeta e la riduzione di disuguaglianze e povertà. È ciò che afferma Filippo Giorgi, fisico del clima del Centro Internazionale di Fisica Teorica Abdus Salam di Trieste, membro del comitato esecutivo dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), quando nel 2007 ha vinto il Premio Nobel per la Pace. Nel 2018 ha ottenuto la medaglia Alexander von Humboldt della European Geosciences Union (Egu) per il suo contributo al progresso della scienza nei paesi in via di sviluppo. È autore di oltre 400 pubblicazioni scientifiche e del saggio divulgativo edito da Franco Angeli L’uomo e la farfalla. 6 domande su cui riflettere per comprendere i cambiamenti climatici.
Alluvioni, tempeste, ondate di calore: gli eventi estremi sembrano diventare sempre più comuni… Possiamo affermare che sono legati al cambiamento climatico?
Attribuire un singolo evento meteorologico soprattutto riguardante la precipitazione, come l’alluvione in Emilia Romagna o una grandinata eccezionale, al riscaldamento globale, non è ancora possibile. Per capirci, è utile fare una similitudine con il consumo di sigarette: statisticamente chi fuma è più soggetto ad avere un tumore ai polmoni, ma quando un fumatore si ammala, non possiamo dire con certezza che sia stato per colpa delle sigarette, escludendo altre cause. Rispetto al clima, quello che si può dire è che il riscaldamento globale contribuisce ad aumentare frequenza e intensità degli eventi meteorologici e ogni anno registriamo nuovi record. Il discorso è diverso per la temperatura. Ciò che è stato attribuito in modo inequivocabile al riscaldamento globale, è l’entità di alcune ondate di calore: senza il cambiamento climatico non si sarebbero raggiunte certe temperature, per esempio in Italia meridionale quest’anno.
Queste precisazioni, che la scienza deve fare, offrono purtroppo una sponda ai negazionisti: come rispondere?
La confusione nasce dal fatto che non tutti hanno chiara la differenza tra meteo e clima. Quando si parla di clima, si fa riferimento a dati statistici di lungo periodo, non a singoli eventi, che possono avere cause contingenti. Le precipitazioni hanno una variabilità molto elevata e oggi è difficile attribuire singoli eventi in modo diretto al cambiamento climatico. La domanda corretta da porsi è: «Aumenterà la probabilità che accada un evento meteorologico di una certa intensità e quale è il contributo del riscaldamento globale?». Per le ondate di calore l’attribuzione è più semplice, perché la variabilità naturale della temperatura è inferiore, dunque è più facile stabilire se, statisticamente, si esce dalla norma. Agli scettici, poi, direi che abbiamo già prove inequivocabili dell’esistenza del riscaldamento globale di origine antropica. Il fatto che ci sia stata un’alluvione o una grandinata può essere un effetto collaterale, ma non ha implicazioni sull’esistenza o no del riscaldamento globale.
Lei ha partecipato ai lavori dell’Ipcc sin dall’inizio. Quando avete raggiunto la certezza che il pianeta si sta riscaldando a causa dell’uso di fonti fossili?
Per l’esistenza del riscaldamento globale, la parola “inequivocabile” è stata usata la prima volta nel report del 2007, mentre la responsabilità umana è stata affermata con certezza solo nel 2021. Prima la si dava come una probabilità, che nel report precedente dell’Ipcc era del 95%. Ogni anno si sono accumulate le evidenze, fino a raggiungere il 100%. Ci sono voluti quarant’anni di studi prima che la comunità scientifica trovasse consenso su un’affermazione così netta, con la richiesta al mondo di mutare radicalmente il modo di produrre energia. È una conclusione a cui non siamo arrivati con leggerezza. Non si possono mettere sullo stesso piano l’opinione degli scettici, molto spesso non esperti di clima, e la voce di chi rappresenta una comunità scientifica che ha lavorato su questo tema per decine di anni. In gioco c’è la sopravvivenza della società come la conosciamo, non sarà il pianeta a pagare le conseguenze del riscaldamento globale, saremo noi esseri umani
Ci spiega perché il Mediterraneo è definito un hotspot climatico?
Uno degli effetti del riscaldamento globale è quello di spostare le perturbazioni verso i poli: nell’emisfero meridionale verso Sud, in quello settentrionale, verso Nord. Questo significa che le perturbazioni che normalmente toccherebbero il Mediterraneo vengono deviate verso il centro e Nord Europa. Infatti, nelle ultime decadi osserviamo una generale diminuzione delle precipitazioni medie nell’area del Mediterraneo e un aumento in Nord Europa. A questa diminuzione si associa un forte aumento delle temperature, perché c’è meno evaporazione dal suolo, si formano meno nubi e c’è più insolazione. Quello che ci aspettiamo per il Mediterraneo, e che si sta verificando, è che gradualmente diventi una zona sempre più arida e si riscaldi molto più della media globale. Per esempio il riscaldamento sul territorio italiano dall’inizio del XX secolo è stato più del doppio della media globale. I nostri modelli ci dicono che, in uno scenario di business as usual, cioè se non si farà niente per il taglio delle emissioni di gas serra, il clima del Friuli-Venezia Giulia a fine secolo potrebbe essere simile a quello della Puglia o della Sicilia, e nel Sud Italia si starà come in Nord Africa. Questo ci suggerisce anche chi potrebbero essere i prossimi migranti…
Di recente sulla rivista Nature Communications è stato pubblicato uno studio per cui la Corrente del Golfo potrebbe collassare molto prima del previsto… Perché è una questione così importante?
La circolazione atlantica è fondamentale perché determina molte delle interazioni tra oceano e atmosfera e da questo dipende il clima del pianeta. Gli oceani del globo sono interconnessi da una circolazione oceanica profonda chiamata “conveyor belt“. Il motore di questa circolazione è nel Nord dell’Atlantico, dove si forma il ghiaccio artico, processo che lascia dietro acqua molto fredda e ricca di sale (perché il ghiaccio non ha sale), quindi più densa e pesante. Questa si muove verso il fondo dell’oceano e “migra” verso i mari del Sud, passa per l’Oceano Indiano e per il Pacifico, si riscalda, risale in superficie e ritorna verso l’Atlantico, producendo per esempio la corrente relativamente calda del Golfo che rende il clima europeo relativamente mite. Se diminuisce la produzione di ghiaccio artico, il motore della circolazione atlantica rallenta. La sua intensità, già oggi, è diminuita di circa 15% rispetto ai valori dell’era preindustriale. Se collassasse, cambierebbe tutto il clima della terra e vivremmo in un pianeta climaticamente diverso. I nostri modelli ci dicono che questo collasso, nello scenario business as usual, potrebbe avvenire a metà del prossimo secolo. Ora, questo nuovo studio anticipa la previsione. Di certo, preoccupa il fatto che la fusione dei ghiacci sta avvenendo più velocemente di quanto ci aspettavamo, per motivi ancora non del tutto chiari, e questo rappresenta un grande rischio anche per l’accelerazione dell’innalzamento del livello dei mari.
C’è un nuovo termine per indicare la preoccupazione legata alle conseguenze del riscaldamento globale: “ecoansia”. Come reagire e non farsi sopraffare da questo sentimento?
Guardo soprattutto ai più giovani. Auspico che questa “ecoansia” si trasformi in una reazione positiva e proattiva, perché credo che gli adulti più difficilmente siano portati al cambiamento. Ma il movimento per il clima ha bisogno di riprendere slancio. Serve un impegno maggiore, più profondo e consapevole, anche a livello politico. Servono misure efficaci per la decarbonizzazione del sistema energetico ma anche per evitare gli sprechi, su cui si basa molto il nostro sistema economico. Soprattutto, però, la soluzione dei problemi ambientali non può prescindere da una riduzione della disuguaglianza tra paesi ricchi e poveri. Da un lato i paesi più poveri sono più vulnerabili agli stress ambientali e meno resilienti, e in un mondo globalizzato questo si ripercuoterà dappertutto, per esempio con migrazioni di massa. Dall’altro, i tagli alle emissioni di gas serra non daranno risultati concreti, se non in combinazione con un’azione che porti tecnologie avanzate, efficienza e sviluppo anche nei paesi più poveri. Se, invece, continueremo ad affidarci a un sistema economico basato su un atteggiamento predatorio verso le risorse limitate del pianeta e sullo sfruttamento delle popolazioni più povere, non c’è speranza di invertire davvero la rotta. Un semplice esempio: se continuiamo a mandare in Africa le auto inquinanti che non usiamo più, le emissioni di gas serra non diminuiranno e la povertà continuerà a crescere. Ecco perché un punto centrale dei negoziati sul clima alla Cop28 di Dubai sarà proprio la creazione di un fondo a sostegno dei paesi in via di sviluppo.