di SERGIO PORTAS
Per entrare alla “Scighera” di via Candiani, nella Bovisa che cantava Giovanni D’Anzi nei dì che furono, in cui pur di sottolineare che “Milan lè on gran Milan” non si peritava di aggiungervi della “nebbia che bellezza, la va giò per i polmon”, roba che in tempi di covid imperante sarebbe più prudente evitare, ci vuole la tessera Arci. Il termine scighera designa del resto quella sorta di nebbiolina che, nelle mattine d’inverno, ricopre la pianura lombarda d’una sorta di bianco tappeto, quasi che una nuvola di dimensioni mostruose sia caduta sulla terra posandosi dolcemente sulle stoppie che, al primo tepore di un sole pur pallido, scompare tutt’ a un tratto, lasciando goccioline d’umidità sulle erbe di un verde ancor spento. L’hanno scelto apposta il nome quelli hanno dato vita a questo spazio di 480 metri quadri divisi in due aree: un bar osteria e un grande salone con palco per concerti e spettacoli teatrali, loro, i primi soci appartenente al mondo del pensiero libertario e anarchico, pensavano che la scighera, al par dell’idea anarchica: “entra nella vita, negli androni delle case, bagna le barbe; pervade con i suoi inafferrabili disegni le paure, i sogni, l’immaginario collettivo”.
E che questo Stato sia una roba pericolosa per la vita delle persone qualsiasi comincia a farsi strada anche in me, in specie quello che la teoria politica classica designa come “stato-nazione”, in pratica ognuno di quelli che pomposamente fanno parte delle “Nazioni Unite”, Vaticano compreso, il fatto è che ognuno di loro ( esente forse solo il Costa Rica, che non ha esercito regolare) ha la guerra come parte essenziale del sistema che lo sostanzia: “La guerra è parte del sistema, ha una sua industria e servizi di supporto che necessitano di investimenti, ricerca, spesa pubblica, produce ricchezza e garantisce sicurezza al sistema. Poco importa se in ogni paese dove la guerra è stata dichiarata come necessaria, come unica opzione possibile, sono rimasti solo cimiteri, macerie e ferite che non si chiudono tra le diverse comunità, con milioni di sfollati e profughi. Poco importa, questi sono considerati effetti collaterali, perdite fisiologiche, previste, non più discutibili in quanto necessarie perla nostra sicurezza ed il nostro futuro” (Sergio Bassoli, rete italiana Pace e Disarmo, sul “Manifesto” del 15/2/2023). Ora è risaputo che l’ARCI è una grande associazione culturale e di promozione sociale che si occupa di cinema, musica, arti visive, impegnata sui temi legati all’emigrazione, al diritto d’asilo, alle nuove cittadinanze; per affermare la tutela dei diritti umani e civili; per costruire un paese più solidale. Che opera per la pace e il disarmo, i diritti globali e la tutela dell’ambiente. Gestisce laboratori e campi antimafia. Dimostrazione vivente che “un altro mondo è possibile”. E che di buttare soldi, nostri, dei cittadini che pagano le tasse, nell’industria degli armamenti non ce l’ha mica ordinato il dottore. La NATO spinge finché anche l’Italia spenda per armi, esercito e quant’altro, il 2% del PIL. Figurarsi se il ministro dell’interno che abbiamo ora non si allineerà, lui che nell’industria bellica ha occupato siano a ieri posti di altissima responsabilità. Ma non è che se Putin (che in questi ultimi vent’anni ha potentemente armato l’esercito russo) e i suoi accoliti criminal-cremlinogeni si mettono a fare i macellai dell’Ucraina, tutti gli altri debbono seguire allineati e coperti. “Amè, me pare ‘na strunzata!” (I Trettè, al Drive In). Se continua così mi dimetto dallo Stato e vado a giocare a carte in Scighera con gli anarchici (sul tavolo il classico mezzo litro di vino rosso), che loro nella santa ingenuità che li contraddistingue sognano un mondo senza guerre e armi, come pure Papa Francesco in verità. Sabato 21 gennaio c’era pure un seminario di canto (e ballo) sardo, al mattino, tenuto da quell’autentico innamorato della musica sarda che risponde al nome di Pino Martini Obinu.
L’idea era quella di coinvolgere i partecipanti in un’azione didattica ma non specialistica, quindi aperto a tutti, sardi e non, conoscenti la lingua e non, cercando di spiegare loro, e anche facendo imparare cantando, la differenza tra un “Cantigos” tipi “Lairellellara”, un “Canto a Tenore tipo “Procrad’e moderare nella forma “a ballu” e i “Canti di impegno sociale” tipo “Nanneddu meu”. Previa informazione su storia e origini dei canti, informazioni sugli autori, lettura dei testi sardi con traduzioni, apprendimento ed esecuzione, con persino le diverse voci armonizzate. In contemporanea un corso acceleratissimo di ballo sardo, il ritmo, la cadenza, il tempo dispari. Insomma si canta e si balla. La sera poi, e qui ci sarei stato anche io a spettatore, i partecipanti al corso avrebbero dato prova di quanto imparato in tre ore, durante il concerto di Pino e i “Sonos de Attesu”, ora d’inizio le 21, rigorosamente con tessera ARCI (15 euro, ma serve per entrare gratis in molti musei, avere sconti per molti teatri). Due parole su Pino, per maggiori informazioni vedere “Wikipedia” che gli dedica un paginone, quando l’ho conosciuto io a Milano stava mettendo in piedi il coro polifonico che sarebbe stato per dieci anni “Sa Oghe de su coro”, voce dunque del coro sardo, ma anche del cuore, che la Sardegna sempre nel cuore dei sardi immigrati o meno ha posto preponderante. Nel cuore di Pino anche di più, perché tutta la sua infanzia l’ha passata lì, tra Paulilatino e l’oristanese tutto, seguendo il nonno materno pure lui Giuseppe Ubinu (noto “Musennore”) che di Paulilatino era sonatore “ufficiale” di ballo sardo, di festa paesana in festa paesana. E poi insieme ad altri scalmanati tipo i Salis a girare suonando per la Sardegna tutta e lasciando (come fanno i marinai) una “fidanzata” in ogni paese in cui si esibivano (questo per la verità lo penso io un po’ invidioso). Poi emigra in continente, segue la brillante carriera degli “Stormy Six” e fa un sacco di altre esperienze nel campo musicale. Mette su famiglia, insegna persino a scuola. Ma in testa una sola cosa: la musica sarda. E quindi l’idea del coro. Ne parlo un po’ perché questa sera i “Sonos” con lui eseguono buona parte di quello che, in dieci anni di prove e controprove, di esibizioni anche, qualcuna quasi prestigiosa, è stato il “nostro repertorio”. Che stasera Pino suona insieme ad altri quattro: Tatai Minchillo, voce e chitarra, e Angelo Maffezzoli, percussioni, pipiolu e voce, due transfughi de “Sa Oghe”, e Luciano Mereu, organetto e fisarmonica a potenza di dieci, e Angelo Bianchini una chitarra solista che mi porterei dietro per l’ultima serenata che farò alla mia bella. In più c’è Roberto Carrus, un maestro di danze sarde capace di ballare con in testa un bicchiere di vernaccia, lui viene da Silì che è come dire Oristano, senza che se ne perda una sola goccia, e a ballo finito la si scola. Con questi presupposti capite bene che la serata avrà uno svolgimento che definirei trionfale. Il pubblico presente non vorrà essere da meno dei canto-musicanti e si metterà a ballare ogni qual volta Luciano darà il là con i primi accordi di organetto, e ci sarebbe voluta una pista doppia di quella che si è potuta usare, chiudendo gli occhi e sognando di essere in piazza, in paese, in Sardegna. Racconta Pino dei suoi trascorsi nelle feste di paese del Sinis: la “band” si posizionava su quei carrellini trainati dai trattori, un filo di corrente tirato da una delle case vicine e una lampadina accesa: questo l’impianto luci; dell’impianto di amplificazione è ancora vivo il ricordo delle scariche di corrente sotto i piedi. Suonavano canzoni “italiane” e rock, creando invero poco entusiasmo. Pochi anche i ballerini “civili”. Quand’è che la piazza si riempiva e tutti ma proprio tutti si scatenavano nei balli: quando a un cenno del presidente del “comitato”, loro smettevano e saliva sul “palco” il suonatore di organetto: pochi minuti di accordi: la festa era davvero cominciata! E anche qui comincia così: “con unu ballitteddu pro ballare/ unu balltteddu ballitè/ unu ballitteddu pro ballare”! E parte, spontaneo, unu “ballu tundu”. Parole e musica sono di Pino. E’ musica di carnevale, carnevale sardo: “Non ci sono coriandoli e non se ne ha bisogno perché a muovere l’aria e riempirle di colori ci pensa la musica di un organetto, la pioggia di note di una boghe ‘e ballu che detta il passo in d’unu dillu, un delirio collettivo e un passu torrau/ritornato dalle camineras del tempo a riempire le piazze il cuore della gente. D’altronde tutti abbiamo una maschera, le nostre sono di pero selvatico, di sudore e fatica che per un breve istante si fondono sulla nostra pelle e diventano la felicità collettiva condivisa in un ballu tundu che tutti unisce, quanto basta per battere il tempo, batterlo, piegarlo e vincerlo: per ricominciare”. Da uno scritto di Michele Pio Ledda. E poi sarà “Monti di Mola” di De Andrè e una serenata come quelle che si facevano a Guspini ai tempi di mamma Pinuccia (leva del ’22): “Dammi su coru Teresa/ ja ti lu torru mantzanu/ si non ti lu torru sanu/ narami cantu es s’ispesa…”. Nel cuore della notte, solo poca luna a fare luce, le tende della finestra appena scostate e il cuore di una ragazza che impazza a mille all’ora. Altri tempi. Qui alla Scighera-sarda è tutto un “Murinedda/ murinedda/ tutto un laire/ lellaira/ tutto un bimba/bimba/ un muzere/ muzere/ un ballade ballade a bellu/ bimba/ bimaaaaa”!Intercalate a “serenata al mare”, di una madre che vede partire la figlia per il “continente”. E: “Veni ca ti cantu amore” già deiTanca Ruja, un’altra delle imprese musicali messe su da Pino Martini Obinu. Suo anche il “Dinghiri Doi” dove “Sas monzas de Ottana sun criende”. “In d’una notte manna de Natale”. C’è spazio per una tarantella pugliese di Tataj, ma è l’organetto che impazza a tenere la gente a ballare in tondo, nessuno se ne andrebbe a dormire stasera. Sino all’alba di domani, quando lemme lemme scende la scighera.
Sergio Portas è un grande cronista.scrive con profondità, conoscenza e precisione . intenso e leggero al contempo. Entra anche lui con buon diritto nel club dei Grandi del Vicinato : Sos Mannos de su Bighinau. Grazie Sergio