IL FOTOGRAFO CAPACE DI STUPIRE E DI STUPIRSI: GIANNI RIZZOTTI CON “ORU NOSTRU”, OSPITE A MILANO DEL CENTRO SOCIALE CULTURALE SARDO

Gianni Rizzotti e Giovanni Cervo

di SERGIO PORTAS

Gianni Rizzotti è un bravo fotografo, diversamente non riuscirebbe a rimanere a galla in quel mondo dell’alta moda che brucia talenti con una facilità pari solo a quell’erba secca d’agosto che non è stata tagliata a dovere sul ciglio delle strade di campagna. Ma, dico io, bravissimo è nel raccontarsi, quasi fosse il manager-marketing di se stesso, e lo fa con tanta spudoratezza che ti viene da perdonargli l’incredibile successo che, almeno nella professione, lo insegue da sempre. Insomma è davvero simpatico. Non se la tira più che tanto, lui che per presentare la sua ultima fatica fotografica: “Oru Nostru”, la mia Sardegna, al circolo sardo di Milano, giusto un mese prima l’aveva squadernato di fronte a una platea ben più numerosa, presso la Biblioteca d’arte al Castello Sforzesco, che i duchi di Milano avevano messo su più per tema delle genti loro che dei nemici d’oltre confine. Non che l’etichetta di “professionista della moda” gli sia piovuta giù dal cielo, racconta che lui, friulano di nascita, a 12 anni  abitava coi genitori a Monza, ma già tre anni prima gli era stata regalata una macchina fotografica, con cui si era subito divertito a immortalare le rombanti monoposto di formula Uno nel celeberrimo circuito cittadino, al centro di quel parco naturale da cui gli ambientalisti doc vorrebbero sgombrare ogni sentore di asfalto, d’olio bruciato, di gomme consumate, tutti profumi di cui invece i fanatici del “cavallino rampante” scambierebbero senza esitazione con qualche litro di Chanel n°7. In seguito a una di quelle malattie infantili per cui ti tocca di restare segregato per un paio di mesi (non poteva vedere neppure la mamma) usava la macchina fotografica a mò di “selfie” ante litteram per “documentare” ai parenti i progressi del suo stato di salute. Non poteva che finire in una scuola di fotografia e il suo doveva essere un corso fortunato in talenti, visto che oltre lui anche due suoi compagni di classe sono poi diventati fotografi professionisti. Naturalmente c’è da fare un bel po’ di gavetta prima di potersi mettere in proprio, otto anni dice Gianni, ma già a 26 avevo aperto il mio studio. Anche se venivo da maestri “importanti” ho comunque dovuto imparare tutto d’accapo quando ho iniziato a lavorare nel mondo della moda. La moda esporta, da non dimenticare mai che l’80% di quella francese è fatta in Italia. Ma è una sorta di giungla da dove è difficile emergere e “mantenersi a galla”, con un via vai di modelle che non si fermano che un paio di giorni, il che ti costringe a un impegno quotidiano con margini di errori irrisori, se sbagli hai finito, che anche foto molto belle spesso subiscono l’onta del cestino. “Prima di questo ho fatto un libro sulle moto che pesava tre chili, non ci crederete ma la luce che si trova nel pianeta moda c’è pure nelle motociclette. Un libro che vende tutt’ora. E in seguito uno sugli “chef” stellati per l’Expo milanese. Per anni ho avuto lavori che duravano 40 giorni, con ritmi che non prevedevano alcuna sosta domenicale ( ci toccava sperare che piovesse per avere un po’ di riposo). La moda non contempla il concetto di rischio. Ha facoltà di anticipare di almeno due anni le tendenze del successo: ora per esempio stanno spopolando i modelli africani. Il mio impatto con la Sardegna risale a ben 35 anni fa, ero stato pagato per tre giorni a cercare “posti da costume da bagno”, da nord a sud, si era di maggio e un maestrale teso aveva reso l’aria di Sant’Antioco più tersa che mai, tra un calice di vermentino e una pasta alla bottarga, mi ero imbattuto in una stradina sterrata che portava nel nulla, se non una casa isolata, tre giorni dopo l’ho comperata. E di posti incredibili nel mondo ne ho visti davvero tanti, ma debbo dire che come mi hanno spalancato le porte delle loro case i sardi, ho visto raramente, persino gente conosciuta per telefono, magari ultracentenari, mi invitava a casa a mangiare assieme a loro il minestrone di mezzodì. La Sardegna ti entra nel cervello, il suo territorio ti riserva sempre delle sorprese. Anche quest’anno andrò con mia moglie per capodanno, e sono certo che i gatti selvatici ci verranno a trovare sicuri di trovare cibo e acqua. Per trovare le persone che poi sono finite nelle foto del libro ho usato il passa-parola, in specie per gli artigiani (mentre parla Gianni, scorrono proiettate le istantanee di cui infioretta gli aneddoti), quando sono arrivato da Franco Sale, che scolpisce le maschere di Mamoiada per i Mamuthones , mi aspettava con l’accetta e un tronco intonso e subito si è messo a intagliarlo con la maestria che sa lui. Che incredibile carnevale quello barbaricino, vedi in giro bimbi che partecipano anche non accompagnati da adulti, vestiti da adulti, nella copertina di “Oru Nostru” non a caso maschere mastrucate, con corna di “boe”, fuoco che rischiara una notte di festa. Difficile persino scegliere, selezionare le immagini, acquisite talvolta seguendo ritmi indiavolati, un giorno che avevo otto appuntamenti diversi in paesi diversi sono incappato nella polizia stradale a dieci chilometri da Nuoro, andavo a 200 all’ora. Ritiro immediato di patente. 450 euro di multa. Ho iniziato a implorare che mi dessero la possibilità di portare a compimento il lavoro che avevo programmato e hanno avuto pietà di me, rilasciandomi un permesso di guida temporaneo”. Le foto del libro che conta 224 pagine sono quasi tutte in bianco e nero ( i veri colori del fotografo), solo alcune a colori, giusto quando si deve mostrare l’oro dell’olio sardo, il rosso crudo della bottarga, il giallo dello zafferano e l’ambrato dorato colore del pane carasau. Per il resto è tutto un susseguirsi di toni di grigio che vanno sfumandosi o annerendosi a catrame, sia nei volti delle persone, sia negli squarci dei paesaggi, i graniti di Capo Testa di cui mare e vento hanno fatto sculture per migliaia di anni e da cui i romani ricavarono colonne per il loro Pantheon, il Pan di zucchero di Masua che spicca a sfida di roccia sopra un mare che lo circonda da ogni dove, a sfondo un cielo di nuvole che promettono acqua dolce a quella immensa salata. La laveria Lamarmora sempre in terra di Sulcis, orfana delle donne di Sardegna a selezionare il “materiale” grezzo.

E che dire degli splendidi murales di Orgosolo e quella casa di Fonni in cui murale e pianta rampicante si abbracciano inestricabilmente tanto che non capisci mai quando inizia l’uno o finisce l’altro. I cavalli de “Sa Carrela ‘e nanti di Santu Lussurgiu, che la vedono in discesa spericolata questa strada ( sa carrela) che gli si spalanca davanti e impone loro un equilibrio di zoccoli che non sempre va a buon fine. Su “componidori” della Sartiglia di Oristano che parimenti spinge il suo destriero al galoppo, la spada tesa ad infilare la stella che porterà buoni raccolti per tutto un anno. La sua vestizione sopra di una panca, che una volta vestito non deve mai toccare la terra, tanto che il cavallo che monterà viene fatto entrare nella stanza della vestizione. La maestà del nuraghe di Barumini a ricordo perpetuo d’una civiltà della pietra, pietre che avevano visto Ulisse scampare lui solo dal popolo che allora, dice Omero, abitava la Sardegna, Lestrigoni antropofagi, giganteschi, pure allora ricchi di greggi. E giganteschi sono i corpi dei guerrieri e pugilatori resuscitati dalla terra di Mont ‘e prana, scrive Bachisio Bandinu nel libro:” …la statuaria perturbante che precede quella classica e per nulla le rassomiglia perché esprime non già l’armonia delle forme ma la violenza del corpo che lotta per la vita: orbite oculari e gestualità che esprimono la forza di un guerriero, un lottatore”. Altri sono i sardi che “parlano nel libro”, un artigiano per tutti Franco Sale: “Grazie legno,  mi hai fatto entrare in un mondo fantastico, sono felice di essere diventato il tuo manovale”. Fiorenzo Mattu, perso nel paesaggio delle Domus de janas di S’abba Vo’ada a Ovodda, quegli occhi grossi che uova di piccione: “…è un’emozione che mi porta indietro nel tempo e nelle mie radici. La terra dei sardi. L’isola che parla nel silenzio”. E Paolo Fresu, il berchiddese, che sa suonare parole come accordi di flicorno che riconosce nelle foto di Rizzotti: “…una terra capace di raccontare orgoglio e passione, fierezza e dignità. Attraverso gli sguardi e i riti che traggono vita da un’altra linea che diviene filo e ordito capace di disegnare geometrie viventi…Perché nel racconto di una mano che tiene un rosario, di un viso dipinto con la fuliggine o di un jazzista che soffia nel proprio strumento c’è una storia comune che trae le sue origini da un mare che, sinuosamente, abbraccia e accoglie”. Con il “file” digitale, dice Rizzotti, la foto di oggi nasce a colori. Dopo c’è tutto un lavoro di trasformazione che usando “Photoshop”, il “software” di Adobe, ti permette di “aggiustare” lo scatto facendo cose impensabili: per esempio raddrizzare le linee dei grattacieli, o dimagrire le donne a volontà. Le foto pubblicate sono frutto di innumerevoli scatti, tipo quella che ho scelto alla fine, del piccolo Mamuthone che bacia la nonna. Poi magari ti viene fuori la Basilica di Saccargia, quella in stile romanico-pisano nel Logudoro di Condrongianus, con il campanile storto. Ma io me ne frego. Licenza poetica la sua. Capace di stupire e di stupirsi sempre Gianni Rizzotti, innamorato di Sardegna, racconta che una volta era sulle dune di Piscinas, servizio fotografico con modella americana, arrivata la sera prima da Los Angeles nell’albergo ricavato da un edificio storico dell’epoca mineraria, sito dinanzi a quel mare verde smeraldo che da il nome alla costa tutta. Questa splendida ragazza la mattina dopo, avanzando sulla rena dorata, ancora un po’ assonnata, in accappatoio, gambe chilometriche e sorriso luminoso, chiede al nostro fotografo: “Ma la piscina dell’albergo, dov’è”. Gianni, con ampio gesto, le ha presentato il mare.

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