di GIANRAIMONDO FARINA
Il disastro minerario di Arsa (28 febbraio 1940), i sacrifici dei finanzieri Efisio Corrias e Vincenzo Flore (26 e 27 aprile 1945), del carabiniere Egidio Loi (20 maggio 1945) ed i martiri goceanini: Pietro Pais di Burgos, Pietro Masala di Nule, Giovanni Saba di Bultei ed Emilio Sanna di Bono.
Vi sono uomini, date e storie che la Giornata del Ricordo, quella che non dimentica, e che, dal 2004 ricade, ogni anno, il 10 Febbraio, giorno della firma del Trattato di Parigi ma anche dell’ultima partenza del traghetto di esuli “Toscana” da Pola, fa riemergere volti e racconti nuovi. Questa volta il “ricordo” ci riporta in Sardegna, grazie ad un’interessante e documentato lavoro d’archivio, condotto da Silvia Sau. La ricercatrice sarda, in un’attenta e meticolosa azione di ricerca e di raccolta dati, conclusasi nel 2021, ha raffrontato varie fonti in merito ai sardi periti e dispersi in terra giuliano dalmata in quei terribili anni. Fonti che partono da quelle riguardanti le deportazioni nella Venezia Giulia, per arrivare a quanto registrato nell’ “Albo caduti e dispersi della Repubblica Sociale Italiana” e nell’ Elenco “Livio Valentini”, caduti della Repubblica Sociale Italiana, quello della Caserma Campo Marzio di Trieste. E si concludono con i due elenchi pubblicati il 5 e 6 novembre 2003 dall’ “Unione sarda”. Lavoro che ha fatto “emergere” dall’oblio le storie di 130 sardi infoibati, morti ed uccisi per il solo fatto di essere italiani e di trovarsi nell’adempimento del loro dovere nelle terre della Venezia Giulia e della Dalmazia. Si tratta, per la precisione, di storie e volti emersi dall’oblio della “damnatio memoriae” che, per ben settant’anni, ha pervaso questo Paese. Un Paese che, per cercare di non ammettere e riconoscere la sconfitta, ha nascosto e messo nel dimenticatoio il dramma di un popolo intero, quello giuliano dalmata, con l’orrore delle foibe e la vergogna dell’Esodo. All’interno di questa storia, i documenti analizzati, che il sottoscritto ha avuto la possibilità di verificare ulteriormente, per cristallizzarli, ci raccontano anche la “piccola” e drammatica storia di civili e militari sardi trucidati e scomparsi nell’amata “terra rossa” istriana. Sono, per lo più, finanzieri, poliziotti, militari dell’esercito, carabinieri, impiegati, civili e partigiani. Oltre che alcuni appartenenti anche alle milizie fasciste. Una storia a parte, poi, che manca a questo elenco, e che è precedente al periodo considerato, è quella, drammatica, dei minatori sardi della “Società anonima carbonifera ARSA” (o “CarboArsa”, costituita a Trieste nel 1919 per le miniere di Albona in Istria e della Slovenia centrale). Società che poi, con la denominazione ACAI (Azienda Carboni Italiani) si unì a quelle sarde del Sulcis. Il governo italiano aveva deciso di potenziare la produzione mineraria, valorizzando l’estrazione del carbone necessario per le necessità del Paese e per le esportazioni, soprattutto in terra tedesca.
Ed il “filo rosso” che lega l’Istria alla Sardegna s’intensifica sempre più. Nel segno, però, del più grande disastro minerario italiano verificatosi nella notte del 28 febbraio 1940 alle 4.30 del mattino. Perirono 187 lavoratori, 137 italiani, di cui 53 sardi, per lo più provenienti dal Sulcis. Ancora le foibe erano lontane. Ma il dramma raccontava. E le foibe avrebbero raccontato di più .
Per la verità di questi minatori sardi non si seppe, inizialmente, nulla perché durante il regime fascista, come si sa, era uso diffondere solo notizie “edulcorate”, descrivendo solo i moderni impianti di estrazione del bacino carbonifero. Dal disastro minerario alla tragedia delle foibe, il passo è stato breve. Alcuni di essi, fra i sopravvissuti, accusati, periranno più tardi, nell’ottobre 1943, infoibati presso Albona. A “parlare” del disastro di Arsa sono state, quindi, le foibe “minerarie”: fra Vines, Terli, Pucicchi, Surani furono recuperate dai Vigili del Fuoco di Pola 159 corpi di minatori. Nella sola foiba di Vines ne furono rinvenuti venti appartenenti all’ A. Ca. I., di cui alcuni sardi, provenienti dal Sulcis Iglesiente.
Se il disastro di Arsa rappresenta un po’ il “truce” anticamera dei tempi successivi che dovettero attraversare e vivere le genti italiane di quelle terre, nitide e drammatiche appaiono le storie “sarde” delle foibe. Ed a parlare sono, anche in questo caso, i documenti.
Come il sacrificio dei finanzieri Efisio Corrias di Decimomannu (Ca) e Vincenzo Flore di Busachi (Or). Il primo era nato nel 1906, l’altro era di due anni più grande, del 1904. Entrambi si trovavano in servizio presso il Distaccamento della Regia Guardia di Finanza di Buttrio, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Un distaccamento che continuava la propria attività di vigilanza in un magazzino di viveri e foraggi a Udine, opponendosi ai tentativi di razzie da parte di tedeschi e sloveni. Antifascisti, nella notte tra il 25 e 26 settembre 1945, si unirono, assieme ad altri otto finanzieri, ad una formazione partigiana slovena. Raggiunta Canebola (frazione di Faedis) attraverso le montagne, il gruppo, informato dal Comando Superiore Partigiano di una possibile fucilazione, capì di essere caduto in un’imboscata tesa da elementi avversi all’Italia. I finanzieri vennero poi divisi in tre gruppi e condotti rispettivamente a Brusnapece, a Lasiz e a Iasbane dove, nella notte tra il 26 e il 27 aprile, vennero fucilati e sotterrati. Individuate le località di sepoltura, nel luglio del 1945 si procedette all’esumazione delle salme. I corpi dei due finanzieri sardi, Corrias e Flore, vennero rinvenuti a Lasiz. Alla memoria di ciascuno dei 9 finanzieri è stata concessa, con D.P.R. in data 26 settembre 2012, la Medaglia di Bronzo al Merito Civile.
Dal sacrificio dei due finanzieri, alla successiva, drammatica, storia del carabiniere Egidio Loi di Terralba (Or). Un racconto drammatico ed intimo allo stesso tempo, che ben si compenetra con il tessuto sociale della terra istriana. In quanto Loi era sposato con una polesana. Nato nel 1921, era contadino di professione. Frequentò la scuola fino alla quinta elementare. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 12 gennaio 1941 venne chiamato alle armi come allievo carabiniere ausiliario nell’Arma dei Carabinieri Reali -Legione Allievi di Roma, con la ferma ordinaria di 18 mesi. Il 14 Aprile 1941 prestò giuramento di fedeltà a Torino. Il 23 dicembre 1941 venne chiamato a far parte del 23° Battaglione Carabinieri Mobilitato e dall’8 febbraio 1942 partecipò con il suo battaglione alle operazioni di guerra nei Balcani. Successivamente, a seguito dello scioglimento delle 23° Battaglione, venne aggregato alla Legione Carabinieri di Trieste e, quindi, al Gruppo Carabinieri di Pola in Istria. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, rimase al suo posto e continuò a prestare servizio presso la Questura di Pola. Il 20 dicembre 1944, si sposò con Giulia Giovannini. Ai primi di maggio del 1945, la moglie di Egidio era incinta di 4 mesi e Pola veniva occupata dalle truppe jugoslave del Maresciallo Tito che, dopo aver preso possesso della città, invitarono tutti i militari italiani a consegnarsi promettendo loro l’impunità. Temendo sanguinose rappresaglie e vessazioni contro la moglie e i familiari, l’8 maggio 1945 a guerra finita, Egidio si consegnò spontaneamente alle truppe jugoslave e venne trasferito nelle carceri di Pola. Qui, rinchiuso in cella, ammassato con gli altri prigionieri, subì pesanti interrogatori che duravano ore, il patimento della fame con il pensiero per il domani, per la moglie e per i parenti. La sera del 20 maggio verso le 23.30, i prigionieri vennero fatti uscire dalle celle con i polsi legati e, formando una lunga colonna, attraversarono la città imboccando poi la strada per Fasana. Arrivati al porto di Fasana, vennero traferiti a bordo della nave cisterna “Lina Campanella”. La nave si mosse prima dell’alba e viaggiò sempre in vista della costa mantenendo la rotta verso Fiume. Tra i prigionieri iniziò a circolare di bocca in bocca un’idea di fuga e fu così che, coprendosi e aiutandosi l’un l’altro, iniziarono ad allentare i lacci ai polsi. A fine mattinata, all’altezza della costa sotto l’altura di Carnizza, la nave urtò contro una mina. L’impatto fu tremendo: la nave si impennò con la prua verso l’alto per poi ricadere e inclinarsi, un mare d’acqua investì quasi tutti, fu una tragedia. Nel frattempo un peschereccio si avvicinò sul luogo del naufragio e raccolse a bordo diversi superstiti. Egidio scampò miracolosamente alla tremenda esplosione e, liberatosi di scarpe ed indumenti, riuscì a raggiungere la riva a nuoto. Da qualche distaccamento vicino arrivarono subito altre truppe slave che incominciarono ad incolonnare i prigionieri per condurli a nuova destinazione, mentre molti feriti rimasero sulla spiaggia. La colonna si allontanò dal luogo del disastro e, percorrendo un sentiero in salita, si inoltrò in un boschetto; è a quel punto che si sentirono delle raffiche di mitra provenire dalla riva che non lasciarono dubbi sulla sorte riservata ai feriti rimasti sulla spiaggia. Egidio durante il cammino, eludendo la sorveglianza, riuscì a comunicare con un civile che transitava con un camion, mandando così notizie alla moglie. Nel tardo pomeriggio, i prigionieri arrivarono nella zona di Vareschi e furono portati in una scuola che si suppose fosse quella di Carnizza. Nelle aule completamente vuote restarono sei giorni. Molti parenti li raggiunsero in questa scuola: anche Giulia raggiunse Egidio, portando con sé indumenti e scarpe. Dovette fare decine di chilometri a piedi. Faceva molto caldo, aveva sete e fame, durante il cammino chiedeva acqua e cibo agli abitanti del posto ma, per paura di ritorsioni dei militari slavi, nessuno si avvicinava per dare soccorso. Ai parenti non era permesso comunicare con i prigionieri, ma Giulia riuscì comunque a intravedere Egidio in lontananza: aveva i capelli completamente rasati, gli fece solo qualche breve cenno dalla finestra e lasciò ai carcerieri il pacco di indumenti destinato al marito. Fu l’ultima volta che lo vide. Nei giorni successivi, Giulia tornò alla scuola ma la trovò completamente vuota. Ebbe poi notizia che i prigionieri furono incolonnati e divisi in due gruppi: un gruppo fu portato a Dignano mentre un altro più numeroso, composto anche da civili, da agenti della Questura (tra cui Egidio) e qualche altro militare, fu trasferito verso una destinazione che rimase ignota. Di Egidio Loi non si seppe più nulla. Una storia mai dimenticata, una fine di cui non si è mai avuto notizia e che i parenti non hanno mai dimenticato. Il 4 ottobre 1945 nacque il figlio di Egidio, Giancarlo Loi, ma il destino volle che anche lui, a soli 23 anni, come il padre, perdesse la vita a causa di un incidente sul lavoro in una imbarcazione sul fiume Po.
Infine, i documenti d’archivio fin’ora analizzati, parlano anche, andando nello specifico di cinque storie goceanine legate alle foibe. Storie dimenticate, che andrebbero rivalorizzate e, soprattutto, conosciute. Su nove comuni del Gocéano, ben cinque, possono annoverare una testimonianza legata alle orrende cavità carsiche ed all’Esodo. Chi erano questi martiri?
Parliamo di Pietro Masala di Nule, dov’era nato il 4 giugno 1917. Brigadiere della Guardia di Finanza a Gorizia, venne prelevato il 2 maggio 1945. Detenuto nel campo di Vipacco, oggi in Slovenia, morì in prigionia il 29 aprile 1946.
Strettamente legata alla sua vicenda è quella di Giuseppe Fae da Sassari, che goceanino lo diventerà per adozione, essendo la moglie di Benetutti. E’, questa, la vicenda, anche di uno dei pochissimi sopravvissuti sardi di questi elenchi. Nacque il 19 agosto 1908 e fu appuntato della Guardia di Finanza a Gorizia. Venne arrestato a Gorizia nel maggio del 1945. Il 18 maggio dello stesso anno risulta prigioniero a Vipacco (GO), assieme al nulese Pietro Masala, di cui raccoglierà la drammatica testimonianza. Viene erroneamente indicato come scomparso negli elenchi dell’Unione Sarda. In realtà, stando alle recenti ricostruzioni, si salvò grazie all’aiuto della moglie, che riuscì a farlo fuggire. La coppia si imbarcò con i figli per la Sardegna e Giuseppe prese servizio a Orosei, per poi tornare nel paese di origine della moglie, Benetutti, appunto.
Vi è poi, da ricordare la storia di Giovanni Saba di Bultei, dove vi nacque il 23 giugno 1905. Appuntato dei Carabinieri -gruppo Ragusa- risulterà disperso (o deceduto) nell’isola di Meleda (Dalmazia) il 23 settembre 1943.
Ed e altrettanto drammatica la vicenda di Emilio Sanna di Bono. Nato il 14 marzo 1915 (o 1905, fu maresciallo dei carabinieri a Spalato, nella stazione del Castel Vitturi. Fu ucciso nel capoluogo dalmata a Castel Vecchio il 30 settembre 1943.
Ultima, anche cronologicamente, la storia di Pietro Pais di Burgos, che si conclude nel lontano entroterra balcanico. Nato il 15 novembre 1905, fu finanziere del IV Battaglione mobilitato, e risulta essere deceduto di stenti il 20 aprile 1945 a Mitrovica (Serbia), in seguito alla dura prigionia.
Anche il Gocéano, quindi, dovrebbe ricordare. Perché queste pagine, ossia le sofferenze degli italiani giuliano dalmati con la tragedia dell’esodo e delle foibe (che riguardò, nel piccolo, la Sardegna ed il Gocéano), non continuino a costituire una “pagina strappata” nel libro della nostra storia.
Articolo di grande interesse storico e sociale.
Grazie.
Con tutto il rispetto dovuto per la ricerca storica effettuata, di fatto di questi cinque nessuno fu infoibato, intendendosi con tale termine “essere gettato dentro le foibe”, cavità carsiche di quei luoghi. Giusto coltivare la memoria ma perché non fare i dovuti distinguo?
ATTESTATO
“IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
VISTA LA LEGGE 30 MARZO 2004 N. 92
ISTITUTIVA DEL GIORNO DEL RICORDO
IN MEMORIA DELLE VITTIME DELLE FOIBE,
DELL’ESODO GIULIANO-DALMATA,
DELLE VICENDE DEL CONFINE ORIENTALE
IN RICONOSCIMENTO DEL SACRIFICO OFFERTO ALLA PATRIA
CONFERISCE LA MEDAGLIA COMMEMORATIVA”
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
ALLA SEMANTICA “INFOIBATI” PER UNANIME CONSUETUDINE ISTITUZIONALE E STORIOGRAFICA, E’ AGGREGATA DA SEMPRE QUELLA DEGLI “ALTRIMENTI MASSACRATI” (FUCILATI, ANNEGATI, DECAPITATI, IMPICCATI, GASATI, SEPOLTI VIVI, PER DIRE SOLO ALCUNE TRISTI VARIANTI).
QUINDI FARE DISTINZIONI NOMINALISTICHE SULLE CAUSE DI MORTE E’ UN’ESERCITAZIONE IMMORALE E RETORICA CHE NON CAMBIA LA SOSTANZA DELLE COSE: SI TRATTA SEMPRE DI UN OLOCAUSTO PROGRAMMATO CON METODI ALLUCINANTI.
Laura Brussi
Volontariato per non dimenticare
Opera Nazionale per i Caduti senza Croce
Buon lavoro di ricerca storica. Complimenti!!