di Michela Murgia
In una recente intervista per Repubblica mi è stato chiesto a cosa si deve secondo me la presenza tra i libri più venduti di tanti romanzi con donne anziane come personaggi centrali. Citandomi Zia Mame e L’eleganza del riccio, Il conto delle minne e Accabadora, la persona che mi ha chiamata si è detta convinta che i narratori abbiano rimesso a fuoco la terza età, in particolare quella femminile. Premesso che quattro titoli – di cui uno uscito nel 55 – mi sembrano onestamente pochini per fare filone, la questione potrebbe non essere peregrina, una volta epurata dal fatto che la letteratura di classifica si muove per trend solo perché gli editori, e non gli scrittori, tendono a pubblicare libri con temi che hanno già "funzionato". Successe così per esempio all’onda lunga dei romanzi sull’infanzia distorta, partita alta già con Dei bambini non si sa niente e arrivata tzunami con La solitudine dei numeri primi, ma questa è un’altra questione. Volendo entrare invece nel merito, c’è da dire che i titoli menzionati hanno un ulteriore dato comune, oltre al fatto che si narra di donne vecchie: sono tutte storie firmate da donne. Patrick Dennis è un uomo, mi si dirà giustamente, ma secondo me non è per questo che Zia Mame è estranea a questo ipotetico filone, dove non stonerebbero invece Ritratto in seppia della Allende o Mal di Pietre della Agus; Patrick Dennis- già pseudonimo di Edward Everett Tanner III – non solo era gay, ma ha mandato altri romanzi in classifica firmandosi con nomi femminili, e ne ha scritti due a 4 mani proprio con autori donne; non era certo la prospettiva femminile a fargli difetto. Il fatto però è che Zia Mame è un personaggio giovanile quando comincia la narrazione. Inoltre al romanzo di Dennis manca la coincidenza dell’ulteriore dato comune agli altri titoli dell’ipotetico filone: sono tutti sin da subito romanzi di formazione aventi per protagonista la relazione tra una donna anziana e una bambina. Il fil rouge a me non sembra quindi l’età avanzata, casomai i rapporti di passaggio del senso tra l’infanzia e la vecchiaia delle donne, oltre che il salto narrativo che in questa dinamica rimuove del tutto la generazione intermedia. Se è vero quello che diceva Anna Maria Ortese, che "si pubblica perché gli editori danno un po’ di soldi, ma si scrive per avere compagnia", credo sia utile chiedersi perché alcune scrittrici (incontrando la risonanza di molti lettori) preferiscano sul piano narrativo la compagnia delle nonne, e per contro rimuovano sempre più spesso la figura delle madri. Perché è evidente che le madri di questi tre romanzi si somigliano in modo inquietante: assenti, anaffettive, tutte inadeguate. Parlando di quello che so, in Accabadora c’è stato sicuramente da parte mia il tentativo di fare pace con un luogo del futuro, un posto dove io donna vivo già ora nel presente, ma in uno stato permanente di rimozione. Dico luogo del futuro e non del passato, perché la vecchiaia narrata al passato è in realtà l’ologramma di un feticcio assimilato, quello contro cui le donne che avevano vent’anni del sessantotto si sono accanite con una violenza che ha lasciato dietro di sé fior di calcinacci e poco altro. Alla messa in discussione di un modello di riferimento non è seguito – al di là della buona volontà dei singoli – alcun modello nuovo, e per chi è nata negli anni settanta trovare un’amica al posto di una madre ha significato in fondo realizzarsi orfana. Mi rendo conto che a quelle donne ora a metà strada è andata anche peggio, basta guardare intorno le superstiti cinquanta-sessantenni terrorizzate all’idea di somigliare anche solo lontanamente a quello contro cui avevano combattuto; l’incapacità di rielaborarsi collettivamente ne ha fatto delle signore un po’ patetiche, povere di dignità coi loro jeans skinny e le "ironiche" collane di plastica colorata, ebbre della possibilità di labbra ancora gonfie e prodighe di occhiate dolci in tralice agli uomini che sorridono alle loro figlie. Narrare di loro, con tutto il rispetto, mi è impossibile senza farne macchietta, dei san sebastiani involontari, martiri senza mai essere diventate eroine, trafitte indecorosamente ai moncherini dell’albero dove avremmo dovuto innestarci noi. Raccontare delle loro madri invece, e farlo mettendole dentro una relazione di traditio con le bambine, è un atto riparatorio sul piano culturale, la necessaria riconciliazione con una memoria che quando ha smesso di essere rivoluzione ha finito per farsi furto. Mentre la pubblicità, la televisione e in misura minore anche il cinema mettono in scena donne che non invecchiano, che non cambiano, che non muoiono, in definitiva che non insegnano, il romanzo può scegliere di restituirle all’immaginario per via traversa, inventandole fertili in altri modi, a dispetto del loro stesso grembo. Sottrarre un personaggio femminile all’età di mezzo, quella in cui la donna è considerata produttiva di beni, servizi, immagine impeccabile e all’occorrenza figli, significa anche liberarla dai codici collettivi, poterla gestire su un piano in cui – sterile in ogni altro verso sociale – può invece ancora generare senso, e senso in relazione. Nessuna rivoluzione, anzi. Sul piano simbolico è una restaurazione generazionale che si realizza seguendo canoni già lisi; la donna sciamana, custode o maestra, poco importa che sia dei dolci o dei rituali umani, è un modello femminile il cui potere è sempre stato pacificamente accettato. Regina, ma dei fornelli. Padrona, purché della casa. Sacerdotessa, ma soltanto dei riti più intimi. Queste storie sono epifania nemmeno troppo celata del femminino lunare dal volto ambivalente, sarta e portinaia in apparenza, sapiente parca o cuoca mistica nel segreto dei sussurri, una doppiezza espressa perfettamente dai confini nebulosi dei pensieri delle vecchie, in bilico costante tra memoria e visione. Ma se questo è un percorso familiare, lo è molto meno il modo in cui è sviluppata nel narrato la relazione tra le due generazioni, le vecchie e le bambine, un legame liberato totalmente dalle leziosità delle carezze tra la nonnina e la nipotina che tanto piacciono a chi disegna le stucchevoli campagne sociali sugli anziani. È una relazione divenuta possibile solo ora perché solo ora le vecchie e le bambine sono riconoscibili come estremi della stessa negazione, entrambe emarginate dalle rappresentazioni dominanti, che impediscono alle une di invecchiare e alle altre di vivere l’infanzia fuori dalla pressione dei modelli adulti. Sotto il peso costante di questo genocidio simbolico, quale altra scelta può esserci per le sopravvissute se non quella di divenire solidali?