di Omar Onnis
C’è un momento della storia dei sardi in cui si generò un cortocircuito tra processi di identificazione collettiva e relazione con gli interessi delle classi dominanti dell’Isola. Un rapporto sempre difficile, quest’ultimo, come testimoniano le vicende dei secoli precedenti, dai fatti del 1668 (fronda aristocratica e assassinio del viceré), alla Sarda Rivoluzione degli anni 1794-6, alla successiva repressione e alla restaurazione sabauda. Un continuo altalenare dell’aristocrazia sarda (di origine iberica, per lo più) tra la fedeltà alla monarchia e rivendicazioni di maggiore condivisione del potere. Ma nel corso del primo Ottocento qualcosa cambia. La base sociale di sostegno alla monarchia si allarga alle borghesie emergenti, che vengono cooptate nei quadri della burocrazia, dell’accademia e in parte minore delle forze armate. La legislazione che sopprimeva le antiche norme sulla comunione delle terre e gli usi civici ad essa connessi e promuoveva l’appropriazione esclusiva dei fondi, nonché l’abolizione del feudalesimo fatta scontare sotto forma di ulteriori imposizioni tributarie alle stesse popolazioni soggette, avevano ridato fiato alle classi dominanti, rendendole più partecipi alle scelte governative, benché queste fossero sempre rigorosamente impostate su un approccio dall’alto verso il basso. Viceversa, tali politiche avevano comportato un’ulteriore dose di privazioni e difficoltà materiali per larga parte della popolazione. Così, mentre gli strati popolari reagivano spesso spontaneamente in modo violento, l’aristocrazia e l’alta borghesia cercavano una via per parificarsi con le omologhe classi sociali del resto del regno sardo. I primi decenni dell’Ottocento vedono così un notevole sforzo da parte di storici ed eruditi sardi volto a dare dignità alle proprie radici nazionali (che allora erano quelle sarde, senza possibilità di equivoci) e al contempo giustificare la propria adesione ai disegni della monarchia sabauda. Ne nacquero curiosi paradossi culturali, come quello rappresentato da Vittorio Angius, fiero esaltatore dell’epopea di Eleonora d’Arborea (divenuta grazie a lui un’eroina da romanzo storico), estensore delle voci sarde del grande Dizionario storico-geografico del Casalis sui possedimenti sabaudi, e al contempo fedelissimo suddito della casata savoiarda (suo il testo dell’inno Cunservet Deus su Re, ancora oggi inno di casa Savoia). Ma non era un caso isolato. Lo sforzo di accreditarsi come nazione dotata di una propria storia, inserita a tutti gli effetti nella grande vicenda dei popoli mediterranei ed europei, contraddistingue tutta l’intellettualità sarda dell’epoca. Ricordiamo i vari Giovanni Spano, Pietro Martini, Giuseppe Manno, Giovanni Siotto Pintor, nonché, tra i forestieri appassionati di cose sarde, padre Antonio Bresciani, Carlo Baudi di Vesme e Alberto La Marmora. Ciò che ne scaturì furono conseguenze sia culturali sia politiche di notevole rilevanza, che in parte ci portiamo ancora appresso. Nel 1846 vennero resi pubblici dei documenti d’archivio che parevano rivoluzionare le conoscenze storiche di allora non solo sulla Sardegna ma addirittura sull’Italia: le famigerate Carte di Arborea. Spacciate per originali medievali, sconquassarono il mondo accademico internazionale per trent’anni, fino alla definitiva condanna come falsi maldestri ad opera dell’Accademia di Berlino, presieduta dall’eminente storico Theodor Mommsen. Al contempo, mentre si provava ad accreditarsi come la culla della civiltà e della civiltà italiana in particolare, si chiedeva al re Carlo Alberto la Perfetta Fusione con gli stati della terraferma (1847), in un tentativo di omologazione addirittura geografica, oltre che politica e culturale, chiaramente illusorio (come del resto fu presto chiaro a tutti). Di pochi anni dopo fu invece la pubblicazione dello studio di padre Antonio Bresciani sulle tradizioni culturali dell’Isola (1850), paragonate esplicitamente a quelle degli antichi popoli orientali. Una risemantizzazione della sardità volta a giustificare la sua esoticità rispetto alla cultura del continente, cui pure con tanto affanno le elites dominanti sarde tentavano di uniformarsi. Lo stesso Carlo Baudi di Vesme, che di Sardegna aveva esperienza diretta, avendo amministrato le miniere d’argento dell’Iglesiente (sua è la pubblicazione del Codex Diplomaticus Ecclesiensis, infatti), sosteneva in quegli stessi anni (1848) l’irriducibilità dei sardi a una matrice culturale italiana. Siamo già in pieno Risorgimento. Mentre si fa l’Italia e gli italiani sono ben lungi dall’essere fatti, su una cosa pare che concordassero tutti: l’estraneità dei sardi a questi eventi. Lo sapevano bene i forestieri, che non esitavano a metterlo in luce, a volte con atteggiamenti paternalistici da bravi colonizzatori evoluti verso un popolo barbaro da trarre alla luce della civiltà. E lo sapevano bene i sardi stessi, che non lesinavano sforzi per accreditarsi in vari modi come partecipi attivi a quella storia italiana cui sentivano in cuor loro di non appartenere. Sono anche gli anni in cui, mentre le campagne venivano periodicamente percorse da ribellioni contro la soppressione dei diritti comunitari e civici, dalla delusione per la Fusione Perfetta nasceva il primo pensiero autonomista dei vari Asproni, Tuveri, ecc. Il compimento dell’unificazione italiana nel 1861 non sembrò produrre in Sardegna particolari effetti. I sardi non furono nemmeno coinvolti in quella specie di messinscena diplomatico/mediatica che furono i plebisciti per l’annessione al Regno di Sardegna degli altri stati italiani. Da bravi sudditi sabaudi, non c’era motivo che venissimo consultati, avendo per altro rinunciato dal 1847 alle istituzioni proprie dell’Isola. A quel punto, dunque, come erano da fare gli italiani, erano anche da fare italiani i sardi. Operazione su cui nessuno si mise all’opera convintamente. La semitizzazione della razza sarda era perfettamente riuscita. Che fossimo di stirpe fenicia nessuno lo metteva in dubbio. I nuraghi stessi, monumenti troppo rilevanti per essere ignorati e al contempo troppo significativi per essere attribuiti a una civiltà autoctona, erano considerati universalmente fenici anch’essi. Gli studi dell’antropologia positivista, poi, ci misero del loro, per sancire la peculiarità etnico-razziale dei sardi. I nostri crani – pareva – attestavano una propensione congenita a pessime abitudini, la predisposizione all’inciviltà, che nelle famigerate Zone Interne (la “nostra Patagonia” come scriveva Giulio Bechi) si trasformava in indole delinquenziale (Alfredo Niceforo, 1897). Niente di meglio, per mettere a
posto questa popolazione così aliena e distante dai canoni della civiltà, che inviare sull’Isola le truppe reduci dalle spedizioni coloniali africane (1899). Gli anni successivi furono caratterizzati da episodi di ribellione più o meno organizzata (sciopero dei minatori a Buggerru 1904; rivolta del pane a Cagliari e dintorni, 1906), sempre repressi manu militari, e dalle prime avvisaglie di risveglio identitario. Chi scriveva opuscoli e articoli anonimi incitando all’”emancipazione”, chi commentava nelle bettole o gridava nelle piazze “a mare sos continentales!“. Nel frattempo non si placava l’operazione normalizzatrice rivolta al contesto più propriamente culturale. Mentre gli studi glottologici – specie tedeschi – individuavano nel sardo una lingua neo-latina particolarmente interessante e “conservativa”, i costumi, le musiche e le tradizioni popolari dei sardi venivano incasellati nel comodo ambito del folklore “regionale”. Nell’Esposizione Internazionale del 1911 (svoltasi tra Torino, Firenze e Roma, le tre capitali del giovane Regno d’Italia) il vestiario tradizionale sardo venne esibito in tutti i suoi colori, forme e stili come le vestigia di una cultura indigena appena acquisita alla civiltà. Pochi anni dopo, lo scarto necessario a passare da popolo barbaro, ma fiero e ribelle, o se vogliamo delinquente, a popolo generoso di abili combattenti, tutto sommato fu minimo. Così ecco trasformati i sardi piccoli, villosi e testardi in grandi eroi da trincea, nella macelleria della Prima guerra mondiale. Mentre gli altri “italiani” imparavano a riconoscersi come tali, a prescindere dalle differenti radici e dall’incomprensibilità reciproca, i sardi ricevevano una rivelazione sulla propria alienità identitaria. Un contro-choc antropologico che li rendeva consapevoli di essere altro, ma non per questo da meno, rispetto ai depositari della civiltà. Quel che ne scaturì, purtroppo, data la lunga tradizione accademica e intellettuale che ci aveva conformato come popolo senza storia, fu quella specie di nazionalismo abborracciato, quella patacca di autoidentificazione collettiva subalterna che fu ed è il sardismo. Ed ecco i sardi eroici diventare un popolo anelante… l’autonomia, perseguire il riconoscimento della propria “specialità”. Della specialità come italiani, ovviamente. Ossia, non potendo pretendere una piena identificazione italiana, ci si accontentò di una assimilazione in un ruolo subalterno, per di più da meritare costantemente in nome del proprio sacrificio e della propria fedeltà. Per altro, dagli anni Sessanta, grazie a scolarizzazione e mass media, i sardi hanno appreso a usare l’italiano anche come lingua di prima socializzazione, parallelamente a quanto avveniva sul continente. Ma, qui da noi, con notevole pervicacia compulsiva. Il sardo, le parlate locali, erano il male assoluto. Come possono testimoniare ancora bene coloro che furono scolari nel secondo dopoguerra e fino agli anni Settanta, qualsiasi sardismo era punito come il peggiore degli errori. Non parliamo poi di usare direttamente il sardo! E del resto il sardo era “la lingua della fame”: sostituirlo con una lingua più civile, come avevamo sostituito gli abiti di un tempo col vestiario appunto “civile” (come si diceva cento anni fa) era un passaggio necessario. Poi il Cagliari vinse lo scudetto e Gianni Brera, il grande giornalista, scrisse che finalmente la Sardegna era entrata in Italia. Bontà sua. Era il 1970. In definitiva, quel che emerge da una disamina anche rapida è che il nostro processo di italianizzazione (cui non sono estranee le applicazioni delle strane teorie economiche e sociali che produssero i Piani di Rinascita) è un fenomeno alquanto superficiale, problematico e mai del tutto metabolizzato. Che ancora oggi esistano in Italia e nel mondo tante associazioni di sardi emigrati la dice lunga sul nostro intimo senso di appartenenza. Che oggi queste associazioni siano in prima fila nei festeggiamenti per i 150 anni dell’unificazione italiana dimostra il nostro smarrimento storico e culturale: una patetica ricerca di approvazione, basata sul sospetto profondo e rimosso di non meritarla.