di Vitale Scanu
“In una ombrosa conca ai piedi del monte Arci si distende pigramente una manciata di case a fare un villaggio di nome Bànnari, che oggi si fa chiamare Villa Verde.
Accucciate una vicino all’altra, sembrano da lontano un gregge immobile di pecore che meriggiano sotto una grande quercia, mentre intorno tremola l’aria rovente della controra. Un paesino fatto di niente, sospeso immobile tra un azzurro Giotto e le ombre degli ulivi, delle querce, e dei freschi pioppi”.
È l’incipit del romanzo del sottoscritto “Bachis Frau emigrato”, che racconta l’esperienza dell’emigrazione di un giovane marmiddésu partito da Bannari.
Da sempre, il tempo sulle nostre montagne e nelle nostre valli trascorre senza raccontare nulla di importante. Niente di nuovo sotto il sole.
Da sempre la terra conosce l’uomo e l’uomo la terra, forse per quell’eterno indistruttibile riciclo di atomi che passano dall’uomo alla terra e dalla terra all’uomo. La terra è nostra e noi siamo della terra, tanto che “la regione in cui un uomo è nato ne plasma la mente” (Curtius). Gli atomi che hanno strutturato le cellule dei nostri antenati, restano personali per sempre e sono ancora lì sulla montagna, perché niente si crea e niente si distrugge, come dice il principio della fisica. E ogni atomo ha come una memoria, un codice, un patrimonio genetico personale (J. E. Charon). Cosicché, se una forza sovrumana riuscisse a riassemblarli e rianimarli, immancabilmente si ri-materializzerebbero i corpi dei nostri avi.
Il presente è già contenuto nel passato: L’unda de ieer porta l’unda de incöö, l’öcc de un vecc l’era l’öcc de un fiöö… (L’onda di ieri porta l’onda di oggi, l’occhio di un vecchio era l’occhio di un bambino…), come canta Davide Van de Sfroos. L’onda di ieri contiene tutte le cifre dell’onda di oggi; le vicende di ieri fanno la storia di oggi, come le innumerevoli matrioske di ieri avevano in sé le nostre mamme. Le informazioni del presente ci vengono dal passato e i ricordi costruiscono l’identità. Noi siamo il riassunto e il prolungamento dei nostri antenati. Essi ci mandano il loro saluto e le loro abitudini di vita con i loro monumenti e i reperti dei loro manufatti.
Basta fare un giretto nelle strutture nuragiche di Su brunk’e s’òmu, dove i nostri antenati abitavano, per rendersi conto della vita che essi conducevano. Tanti di noi bannaresi abbiamo conosciuto i compaesani più antichi, i cui modelli di vita, di abitazione, di credenze, di mentalità, di forme d’arte e di musica… non si discostavano molto da quelli dei tempi nuragici, che non facciamo fatica a immaginare (vedi immagini sotto). Erano gli ultimi nuragici… Abbiamo conosciuto su foxìbi, (l’incavo centrale nel pavimento di quelle cucine senza camino, piene di fumo, dove si accen-deva il fuoco), su làdiri (i mattoni di terra cruda con cui gli assiri e gli egizi costruivano i loro edifici, di cui alcuni sono arrivati fino a oggi), su frascu e sa buttilla, sa brocca, su broccobittu e sa fraschera di terra cotta, il sistema di aggiogare i buoi (uguale identico al sistema assiro ed egizio, diverso da quello continentale), su stabi (ossia lo stàbulum dei romani, riservato al ricovero delle bestie), il modo di coprire i tetti a cannitzada, s’arau de linna, il carro a arroda prena (identico ai carri shardana ritratti nei geroglifici di Abu Simbel), sa lóssia de su carrattõni, lo stesso diffusissimo cognome Scema (parola di origine ebraica, shema, che significa Dio ascolta), eccetera. Ecco la descrizione che Diodoro Siculo fa del popolo nuragico delle nostre zone. I nuragici «hanno le proprie sedi sui monti, dove abitano certi luoghi impervi e di difficile accesso, abituati a nutrirsi di latte e di carni, perché vivono di pastorizia e non hanno bisogno di grano. Abitano in dimore sotterranee, scavandosi gallerie al posto di case, e così evitano con facilità i pericoli delle guerre. Perciò, quantunque i Cartaginesi ed i Romani spesso li abbiano inseguiti con le armi, non poterono mai ridurli all’obbedienza». E aggiunge: «Quantunque i Cartaginesi al vertice della loro potenza si fossero impadroniti dell’isola, non poterono però ridurre in servitù gli antichi possessori, essendosi gli Iolei (Iliensi) rifugiati sui monti ed ivi, fattesi abitazioni sottoterra, mantenevano il loro bestiame, si alimentavano di latte, di formaggio e di carne, cose che avevano in abbondanza. Così, lontani dalle pianure si sottraevano anche alle fatiche del coltivare la terra e seguitano ancora oggi a vivere sui monti, senza pensieri e senza fatiche, contenti dei cibi semplici».
Modelli di vita rude, di vita semplice fatta di libertà, abitudini di vita pastorale ed espe-rienze talmente radicate di autonomia, “senza pensieri e senza fatiche”, da conservare memoria di sé ancora dopo migliaia di anni, fino ai giorni nostri. Ecco un elenco stenografico dei “cibi semplici”, fonte della sussistenza dei nostri avi preistorici, che devono essere quelli menzionati indistintamente da Diodoro Siculo, a base di lòri, bidrura, latti, òus e pezza e che tuttora i bannaresi conoscono e consumano.
Minestra cun ollu, minestra cun latti, minestra cun arrascottu, minestra cun guréu, mine-stra cun prisucci, minestra cun fasóu, òus a cassoba, òus frittus, òus a mòddi, òus a tostau, pãi indorau, pãi cun arrascóttu, pãi cun edra, minestra cun cabi, minestra cun cab’e fròri, minestra cun canciofa, minestra cun cugùzzua, cugùzzua a cassòba, faixèdda cundida, faixèdda fritta, faixèdda fatt’a trutta, fa a lissu, fa cun cróx’e procu, succh’e fa, fa e cìxiri arrustiusu, gintilla cun frégua, cab’e fròri in umidu, cab’e fròri frittu cun òus, canciofa a cassòba, minestra cun cìxiri, cibudda cun òus a cassoba, cibudda fritta cun òus, cibudda arrustida, cibuddau, frégua, simbua fritta, pasta incasada, pasta cun bagnèdda budra, marracõis de xibìru, pillus, telluzzas, suppas, pèzz’e angiõi, crabittu e procéddu arrustia e alladriada, buddida e fritta, peixèddus indoraus, codra de angiõi, sanguneddus, figàu frittu e arrustiu, musteba, satitzu, ladru, edra, zìppuas.
Ed ecco un brevissimo, molto lacunoso elenco di dicius e proverbi, veri e propri sublimati della mentalità, della saggezza e dell’arguzia dei nostri antichi avi, senza dubbio ereditati dai loro padri e nonni. Aqua e sobi annad”e lòri, aqua e bentu annad’e sramentu, aqua currenti no fai dann’a brenti, a cropp’a croppu si ndi sega’ sa mata, arrìu mudu traitòri, a bentuai a candu tirat bentu, candu ddu scinti tresi ddu sci’ dogna arresi, est unu chi pottada sa sch?a ananti, unu chi ddi mancada sa mellu’ dì ‘e s’annu, centu concas centu barritas, est unu chi s’è furriau a su majóu, bisongiada a accapiai su mobenti anca ‘òi su meri, su mobenti no conoscidi su zaffarãu, s’è torrau in cuguddus, chi crocca’ cun mraxãi prenu de puxi si ndi pesada, chi manda’ mau missu mellus chi ddu fazad’issu, chi no podi’ messai spigada, chi tenit santus in còti no timi’ sa mòti, chi currit du’ lèpiris no ndi piga’ manc’unu, chi nara’ su chi ‘oidi intendi’ su chi no bòidi, conforma su stampu su baballóti, dogna cosa a tempu’ suu, in dom’e su frau schid?i de linna, in friaxiu callenta’ terra, innui ddu ha’ fumu ddu ha’ fogu, su fami finzas’a còi no è fami mau, est unu chi ‘òi s’óu sa pudda e s’arriabi, s’arrisu de is carrus furriaus…
“Ignorare le cose e gli avvenimenti della nostra città, quali che siano, è come non conoscere le proprie radici” (Giovio). Conserviamo e coltiviamo perciò la memoria dei nostri antichi padri e conserveremo le radici che hanno costruito la nostra identità.