di ANNA MARIA TURRA
. Il solenne il rito della transumanza in Sardegna prevedeva spostamenti di bestiame anche fino a 200 chilometri e permanenze di almeno sei mesi. La carenza di terre per il pascolo degli animali data dalla dispersione della proprietà e da fattori ambientali, storici, socioculturali e dalle variabili climatiche sono gli elementi che fino agli anni Settanta hanno determinato confini e coordinate della realtà pastorale sarda.Nel basso Medioevo, quando nell’isola si diffonde il feudalesimo, la transumanza era un fenomeno noto e, nonostante l’incompleta documentazione arrivata ai giorni nostri, si indovina una diffusa mobilità pastorale già dai secoli precedenti.
Il patrimonio zootecnico si incrementa e si assiste a un sovradimensionamento dato dall’arrivo a fine Ottocento degli industriali caseari continentali. Si apre a un mercato internazionale del formaggio pecorino e le terre pascolabili diventano insufficienti soprattutto intorno agli anni Cinquanta e Settanta del Novecento quando gli interventi politici, a partire dal secondo dopoguerra, interessano il settore.
Nella lingua sarda, a conferma di una specificità e straordinaria ricchezza di vocaboli, diversi sostantivi descrivono la transumanza: tràmuda, truvada, turvera; tramudas o tramunare sta per trasportare da un posto all’altro o ancora a Desulo, per esempio, piccolo centro della Barbagia che si è anticamente reso noto per aver a lungo praticato lo spostamento del bestiame, nonostante il dialetto non preveda un sostantivo equivalente, la transumanza viene identificata a seconda della durata: per lunghi periodi si usano i verbi ierrare cioè svernare, istulare cioè pascolare nelle stoppie o istrangiare cioè raggiungere posti lontani.
Nei versi di Gabriele D’Annunzio “Settembre, andiamo. È tempo di migrare” paesaggi bucolici con pastori e armenti, al chiarore delle stelle, scendono in un viaggio antico, compatti come la neve nei presepi. È in ogni parte d’Italia da fine Ottocento ma in Sardegna la vecchia transumanza è un’esperienza dai risvolti suggestivi che attraversa modificandoli gli equilibri dell’economia della regione.
E in tempi pandemici complicati dai venti di guerra, la transumanza si accosta all’idea di passaggio obbligato da una terra all’altra di popolazioni in fuga da bombardamenti e guerriglie urbane in un nuovo esodo; così la metafora del cammino dell’uomo e del bovino, iniziato diecimila anni fa con la domesticazione, nel terzo millennio diventa specchio sinistro di un viaggio per la sopravvivenza, consegnando alla storia una nuova sconcertante diaspora.
“Figlio della transumanza” è il titolo del libro di Franco Gioi che a 13 anni percorre ben 100 chilometri verso quei terreni in affitto su cui poi il padre stabilirà un’azienda intensiva. Diploma in agraria e iscritto all’ università di Sassari, una laurea in medicina veterinaria con il massimo dei voti, un master in Bocconi è il direttore sanitario, il dirigente veterinario che ha firmato il certificato di identificazione dell’ultimo animale transumante nel 2016. Ogni allevatore deve infatti iscrivere ciascun capo di bestiame alla banca nazionale del Ministero della salute, questo archivio identificativo riporta i dati del microchip messo con un lancia boli dentro il ventre di ciascun animale. «Gli ultimi fogli rosa che certificano lo stato di salute del bestiame – confida Gioi – sono stati emessi nella primavera del 2016.»
Completamente conquistato da bambino dall’avventura dello spostamento degli armenti deve però fare i conti con il padre che, preoccupato per la sua istruzione, lo metterà nel collegio dei padri somaschi di Elmas nella provincia di Cagliari, luogo dove si sono istruiti – per intenderci – sia Manzoni che Andreotti. Nato a Desulo a 1000 metri sul livello del mare, attualmente stabilito a Villacidro, Franco Gioi è oggi l’imprenditore che nel suo libro ha raccolto 15 interviste a protagonisti di transumanze epiche, indagando il grande impatto di questo viaggio sul territorio, sugli sviluppi che hanno poi creato posti di lavoro, fabbricati, macchine agricole e attrezzature innovative. Nonostante oggi in Sardegna ci siano oltre tre milioni di ovini, lo spostamento di centinaia di pecore dalle montagne ai pascoli pianeggianti è una pratica del passato che attualmente vive soltanto nella memoria collettiva delle differenti comunità pastorali ma l’affaire della transumanza si è trasformato, in termini economici, nel valore di media espresso dalle moderne aziende di 10 mila euro a ettaro. «Oggi è rievocata anche la transumanza a cavallo, sono molte le operazioni di matrice culturale e consumistica, ma per lo più il bestiame viene spostato con automezzi. – spiega Gioi – Salvatore Locci è l’unico pastore di Desulo che va ancora a piedi. Il mio libro si riferisce al secolo scorso, a quei pastori transumanti che, come mio padre, sono diventati stanziali realizzando aziende intensive.»
Diffusa in tutta Europa la transumanza, almeno fino agli anni Settanta, è stata una pratica assolutamente vitale e imprescindibile nell’organizzazione delle attività pastorali. Dalla Spagna alla Valle d’Aosta, nelle regioni meridionali d’Italia, come Abruzzo, Molise e Basilicata è soprattutto identificativa della Sardegna, che detiene quasi il 60% del patrimonio ovino e caprino italiano.
In ogni caso la direzione della vecchia transumanza è verso sud e prevalentemente dalla Barbagia al Campidano, solo poche comunità del versante settentrionale del Gennargentu muovono in direzione opposta, verso le pianure costiere della Baronia e verso la Nurra di Alghero.
L’Unesco, nel dicembre del 2019, a Bogotà, dichiara la transumanza patrimonio immateriale dell’umanità, ma per alcuni resta la plastica certificazione di una attività ormai estinta e obsoleta mentre si dimostra l’elemento esemplare di un fenomeno dalle ampie declinazioni, che si fa modello identitario con l’obiettivo di destagionalizzare i flussi turistici. In un fiorire di sagre della tosatura, pranzi con i pastori e pernottamenti in sos pinnettos – le antiche abitazioni pastorali – si trovano gli esempi dell’imponente processo di celebrazione culturale che sta caratterizzando in questi ultimi decenni il panorama isolano.