di GIANRAIMONDO FARINA
Per il ricordo dei sette guardiafuochi volontari periti nell’incendio della Foresta demaniale del 31 Luglio 1945.
Questa non è solo una poesia. È la storia di una comunità,Anela,che da quasi ottant’anni, ormai ,il trentuno di luglio ricorda quell’immane tragedia in cui perirono sette guardiafuochi, giovani e padri di famiglia. In queste sedici quartine si racconta un dramma che entra nell’animo e nelle menti di ciascuno,lasciando sempre una lacrima indelebile per via della tragedia perpetratasi nei monti di Anela quel caldo e ventoso 31 luglio 1945. Nicolino Pianu ci rende un dramma di quasi ottant’anni fa’ con drammatica e sconvolgente attualità . Una poesia che, certamente, è cronaca ma che, allo stesso tempo, diventa tragedia. Una tragedia magistralmente descritta nella sua terribile progressione . Il grande poeta anelese non lascia nulla al caso: ogni ambiente, ogni aspetto, ogni particolare di quel dramma è raccontato in questo quadro. Si inizia con le prime sei quartine che descrivono quel che avvenne in quella domenica del 31 luglio 1945 nel Demanio di Anela. Una giornata, inizialmente, di festa,arricchita dalla celebrazione eucaristica officiata dall’allora parroco, il compianto don Raffaele Cinellu di Bono, poi tramutatasi in “rosso sangue” per via del fuoco partito da quella inaccessibile valle di “Traschia”.Valle divenuta, nel comune sentire popolare, “valle di lacrime”, da Paradiso che era. Un fuoco infernale che, partito dalla località “Baduedras”, aveva ricoperto l’intera costa di “Traschia”,”sa Pala de Traschia”. Un incendio che, sviluppatosi a valle, verso le undici della mattina,alimentato dal vento, era giunto a ricoprire l’intero costone, mandando in cenere un migliaio di ettari di bosco e causando la morte atroce di tutta la rigogliosa fauna selvatica presente. Oltre, naturalmente,i sette valorosi volontari anelesi, morti nel loro lungo e tormentato calvario. Già, perché, come la struggente poesia di Nicolino ci descrive, la loro fu ,realmente, una “dolorosa peregrinatio” verso l’abisso della morte. Cammino partito con la speranza di spegnere, da subito, il fuoco alimentato dal fondovalle,di “Baduedras”, ma che,ben presto, si tramuterà, per queste povere vittime, in autentico calvario senza salvezza. La lirica rende benissimo tutto questo,portandoci con la mente,il cuore e l’anima a rivivere quel momento d’immenso dolore, unico per Anela. La costruzione del componimento,anche per questo,si presenta magistralmente resa in progressivo “pathos” di dolore, che va dalle prime sei quartine, in cui si descrive l’ambiente naturale teatro dell’olocausto. È questa la parte in cui al lutto, ancora fresco e mai rimarginato, si sovrappone il ricordo di quell’immane dramma. In questo primo passaggio introduttivo sono due le strofe a dominare. Una,la prima,quella del ricordo dell’appena finito conflitto mondiale,il secondo, da cui anche la piccola comunità di Anela ne usciva dilaniata fra i suoi figli reduci o dispersi o morti lontani. E l’ “incipit” rievoca tutto questo: “Fit sa gherra finida un annu appena/ sa idda in logu friscu ancora in pena/ no si fit isettende atteros dannos”. Il paese non si stava aspettando altri danni. Eppure, purtroppo, la tragedia era là a pochi passi,quasi come una fiera selvatica che stava aspettando il suo momento per avvinghiarsi sulla preda indifesa. Così è stato quel maledetto fuoco, inizialmente innocuo, partito dal fondovalle del Demanio,poi, spinto dal vento,tramutatosi in furia devastatrice : “Pariat fumigheddu e ziminea/ fazile pro andare a che lu occhire/ ma cando dezideini de fuire/ fit totu fogu e frana s’adde intrea”. Fuoco che lasciava devastazione e morte , avvinghiando seco, alimentato dal vento in risalita verso la sommità di “Traschia”,in un labirinto infernale, tutto ciò che trovava (“No s’est sarvadu perunu animale,/ tra sa “Pala e Traschia e sos Bullones”/ baccas, bitellos,porcos e sirvones/ mortos uscrados in donzi canale”).
Per arrivare al “corpus ” centrale, con le successive sette quartine in cui,quasi fosse una vera e propria liturgia del commiato,senza citarli per nome, il poeta presenta le vittime in un rito liturgico allo stesso tempo laico e religioso. I sette volontari anelesi periti nell’adempimento del loro dovere furono posti, con i volti resi irriconoscibili e carbonizzati dal fuoco, in sette cassette e portati in paese dove furono riconosciuti dai loro familiari per via di indumenti, monili o di qualche particolarità fisica i cinque giovani o delle fedi nuziali, i due più anziani già sposati con figli. Bellissima e piena di contrasto l’immagine delle due fedi luccicanti in mezzo a tanta fuliggine (“oro lughente in mesu ‘e tittieddu”) ( “Los an connottos a forza e mattana/ e postos in cassetta sinnalada/ unu dae una dente indaorada/ e atterunu dae una collana (…) Sos isposados zughiana s’aneddu/ fin duos e fini babbos de famillia/sa fede chi jughiana che rechillia / oro lughente in mesu ‘e tittieddu”) . A dominare queste sette quartine centrali vi e’ quell’aggettivo sardo, sapientemente coniato,”framaridas”, fuoco che non portava vita ma aridità e morte . Fiamme che avevano chiuso in un inferno la vallata di “Traschia”,ostruendo ogni via di fuga e diventando l’autentico calvario dei nostri prodi. Con il fuoco, che già verso mezzogiorno inondava di rosso sangue il cielo (“(sas framaridas) an tancadu in fiancos sas bessidas “) . E questo, per Nicolino e per tutti, diventava il “Golgota anelese”. I sette volontari, partiti prima con coraggio,forza ed ardore, accomiatatisi dal resto della popolazione in festa a poca distanza, inoltratisi uniti nella discesa della fittissima vallata con l’intento di spegnere l’incendio, verranno travolti e soffocati dalle fiamme che, spinte dal vento, risalivano “Traschia”. Lo stesso poeta racconta, come testimone diretto ,quel dramma,nel cielo e nell’aria rosso sangue che,nel giro di mezz’ora pervase tutto il Goceano (“Fia minore mi l’ammento ancora/ totta in colore e sambene s’aera/ calore e fumu in totta sa Costera/ pius o mancu in tempus de mes’ora”). Le ultime strofe,infine,ci rendono il dolore che pervase il paese accogliente,come una “madre-madonna addolorata”, le sette cassette trainate dai buoi dei suoi figli martiri provenienti dalla montagna (“Immazinade ite dolore e prantu/ colende in bidda chin carros e boes/ senza cumprendere chi fini eroes/ in cassettas andende a campusantu”). Nel passato,per via di faide ed omicidi consumatisi in montagna, Anela aveva già visto questi cortei funerei che si concludevano in “S’Ortu Tomasu” per dare spazio alla ricognizione dei cadaveri. Questa volta, ci si trovava al cospetto di sette eroi caduti nell’adempimento del loro dovere, condotti dal loro “Golgota” (“Sa Pala de Traschia”) al loro “Sepolcro” (il cimitero) per essere sepolti assieme all’ “Altare dei prodi”. Il poeta non cita i nomi dei caduti per rispetto e per delicatezza. Noi lo facciamo, invece, li citiamo per non dimenticare. Perché Anela il 31 Luglio di ogni anno, non dimentica e ricorda. Essi sono: FARINA Settimio di anni 22, LOI Antonio di anni 18, PAONI Salvatore di anni 21, SANNA Giovanni di anni 51, SATTA Antonio di anni 46, SINI Giovanni Antonio di anni 38 e VIRDIS Silvestro di anni 19. Nicolino aveva composto la poesia nel 2015,in occasione dei settant’anni dalla tragedia. Ma è uno scritto che rimarrà a perenne memoria di tutti,anelesi e non, che amano la natura, la montagna e la vita.
E stato un brutto giorno per il paese di. Anela ed una immane tragedia. Che tutto il popolo anelese ricorda ancora dopo 80 anni. Con un triste pensiero verso i 7 morti di allora
Non bisogna mai dimenticare queste persone decedute in questa tragedia e la comunità di Anela deve sempre ricordare e onorare . Il
Presidente dell’associazione Corsica Belgio .