di PIER BRUNO COSSO
La Sala piena, con quel vociare di sottofondo che ti contamina di solitudine; quasi un rifugio prezioso, non un’evasione. Poi dal palco si alza lui con il microfono. Il brusio cessa all’improvviso come la pioggia in aprile, e ci parla abbracciandoci di parole. Non racconta soltanto, ci abbraccia di parole, ci racconta come è lui, senza nessuna reticenza, affinché tu capisca come sei tu, in fondo.
Perché ognuno segue la sua strada, nei rettilinei e nelle curve, e Francesco Abate (è lui sul nostro palco), arrivato a metà serata ci racconta le sue di curve. C’è voluto poco per creare quell’atmosfera di confidenza. Un tempo breve e qualche frase tirata su dal profondo perché noi tutti insieme, e loro di fronte a noi, ci sentissimo come vecchi amici. Vecchi amici che si siedono in semicerchio davanti al caminetto e possono scherzare, prendersi in giro, e poi raccontare anche di quel giorno che disperavano di farcela. È la narrazione dei suoi demoni, o forse sta raccontando i nostri. Ma come fa a conoscerli?
Poi il cielo ritorna terso e, con serena ironia, riempie l’aria della sala confessando quelle quarantotto ore di buio che ogni tanto gli arrivano. Due giorni che forse non ti salvi, possono arrivare a tutti, possono arrivare al lettore; di sicuro arrivano allo scrittore.
No, non è soltanto la presentazione di un libro. È un incontro di persone e di storie; di persone dentro le storie. È la magia di chi ti sa prendere.
Francesco Abate sta parlando a tutto l’auditorio, ma si sta rivolgendo singolarmente a ognuno di noi, incantati lì. E non un cliscé, è quel dono che lui ha, come pochissimi, di trascinare con il suo entusiasmo. Di trascinarci nella giostra dei racconti, di mostrarci un vortice di personaggi reali miscelati con quelli di fantasia, come il gin e l’acqua tonica. E allora siamo tutti insieme, più di cento persone, in quella sala senza confini, in un’unica sensazione profonda tra pagine e vita vera. Vita, vera, quella che può anche far male, ma che dopo ci deve consentire di riprendere la corsa.
“Professor” Abate ce lo mostra come una cosa semplice, come una lezione di vita. Professore che professa la verità, e ce la porge. Oddio, davanti a questa definizione si arrabbierà tanto, e sappiate che se non mi vedrete scrivere il prossimo articolo è perché Francesco mi avrà eliminato fisicamente.
Oppure, anche se ha l’aria angelica e la pacatezza dell’uomo saggio, sono certo che saprà architettare una punizione più cattiva: mi spedirà nella Cagliari del 1905, dove comanda lui con la sua bella penna, nel centro esatto dei delitti e degli intrighi del sul libro: Il complotto dei Calafati (Einaudi 2022).
Ma forse non si stava poi così male, a vivere nella sapiente lentezza delle immagini color seppia. A innamorarmi anche io, come ogni lettore, e lui prima di tutti, della protagonista Clara Simon. Una giornalista, una donna in mezzo al guado della sua vita, della sua identità di appartenenza e dalla sua investigazione. Ma, come ogni donna che si possa definire tale, in grado di affrontare e superare qualunque guado.
Clara, giovane, bella e ricca, partecipa a un suntuoso galà di beneficienza per incontrare un funzionario della ambasciata italiana proveniente dalla Cina, paese dove è scomparso suo padre. Ma tra gli invitati ci sono anche gli esponenti di una potente famiglia, che nel viaggio di ritorno vengono aggrediti e uccisi, insieme al loro autista. Tanto basta perché la giornalista si butti a capofitto dentro il mistero per cercare la verità, o forse le sfaccettature di tante verità.
Francesco Abate, sempre in piedi sul palco, ci racconta del lungo lavoro di ricerca per una ricostruzione fedele degli inizi del Novecento nella città sarda. Il porto, il quartiere Marina, la malavita e giovani dell’alta società, dove forse nascevano amicizie, e quel qualcosa di più che ci declina in tutte le sfumature.
Non vorrei dire che la magia del libro stia in questa accorta ricostruzione storica, perché l’ambientazione d’epoca non è la cornice del suo dipinto. È molto di più: il Novecento cagliaritano è personaggio esso stesso, con passioni, paure, giorni chiari e notti profonde. L’autore ci porta dentro l’alba del secolo scorso facendocelo respirare, sentire sulla nostra pelle, sentirlo viva, non certo per un mero restauro di facciata.
Ma quando nella presentazione tutto sembra diventato troppo serio, Francesco Abate accenna quel suo sorriso un po’ sbilenco ed entra in derapata nelle curve dell’ironia. E invita una compostissima signora del pubblico a leggere il cognome che ha coniato per un suo personaggio: Martino.
«Martino Ganecoddai!», scandisce sconsolata per la trappola, riuscendo a ricacciare indietro la sua risata più piena. Per un attimo siamo tutti ragazzini che suonano i campanelli dei portoni e scappano ridendo dei malcapitati. Con quel “sentimento del contrario” che per Pirandello era all’origine della comicità.
Anche per questo non si dovrebbe mai perdere una serata con il nostro grande scrittore, perché ci sono serietà e scherzo trattate con uguale disincanto, come nelle pagine, come nella sala, come nella vita.