di FRANCESCA BIANCHI
Durante la mia visita ad Arzachena (SS), ho avuto il piacere di incontrare e intervistare Michele Fresi, maestro elementare in pensione che ha formato generazioni di arzachenesi. Fresi ama definirsi soprattutto pastore: è sempre stato tenacemente legato alle sue origini pastorali, ai ricordi della vita trascorsa nello stazzo arzachenese della sua famiglia. Alcuni decenni fa, quando iniziarono ad intravedersi i sintomi di una decadenza gravissima della economia tradizionale e della cultura della Gallura, Fresi scrisse L’ultima Gallura. La storia degli stazzi raccontata da un pastore gallurese, libro pubblicato in forma di racconto autobiografico. In questo pregevole volume, dopo una panoramica storica sulle fasi che portarono alla nascita e all’evoluzione dello stazzo gallurese e, poi, alla sua decadenza, il maestro si sofferma anche sugli aspetti socio-culturali della civiltà degli stazzi, descrivendo tradizioni, usanze, curiosità, aneddoti di quella società: il ruolo della donna, la solidarietà fra i pastori, l’importanza dell’ospitalità, i divertimenti e gli svaghi, l’alimentazione, l’arte e la religiosità nella cultura dei pastori. Qua e là riaffiorano i ricordi della sua infanzia e della sua gioventù: momenti di vita, incontri che hanno contribuito a formare la sua personalità. Il maestro Fresi precisa che le tutte considerazioni espresse costituiscono la sintesi del mio sapere, portato dell’esperienza, e pertanto appartengono al patrimonio culturale di tutti i pastori.
Chiunque starebbe per ore ad ascoltare Michele Fresi, senza mai stancarsi né annoiarsi. Profondo conoscitore della storia degli stazzi galluresi, nonché testimone e custode dei valori culturali che hanno fatto grande la Gallura, Fresi per tanti suoi allievi è stato ed è ancora un maestro di scuola e di vita. A lui rivolgo un pensiero di sincera gratitudine per questa bella intervista in cui si è raccontato a cuore aperto. Mi auguro che quest’anno, in occasione delle celebrazioni per il centenario dell’autonomia comunale da Tempio Pausania, Arzachena possa ospitare una presentazione del libro L’ultima Gallura. In modo particolare, spero che il Maestro possa essere accolto in una scuola gallurese per raccontare alle giovani generazioni di questa splendida terra la storia di un mondo ormai scomparso, dei cui valori dovremmo tutti fare tesoro.
Maestro Fresi, alcuni anni fa lei scrisse il libro L’ultima Gallura. La storia degli stazzi raccontata da un pastore gallurese, un omaggio alla cultura degli stazzi, che lei conosce bene e di cui incarna con orgoglio i valori. La sua storia è iniziata in uno stazzo arzachenese a cui ancora oggi è legato da un forte sentimento d’amore… Proprio così! Nella parte occidentale del territorio di Arzachena, sorge la casa di uno stazzo costruita poco prima della Grande Guerra. La porta sull’uscio logora, qualche finestra priva di imposte e le erbacce alla base dei muri denunciano un degrado che rispecchia fedelmente la condizione della maggior parte degli stazzi di Gallura. Di tanto in tanto, sento il bisogno di visitarlo. Un sentimento d’amore e gratitudine mi lega a quella terra e a quella casa, dove io nacqui e crebbi. I miei genitori, pastori proprietari, provenivano da una lontana cussorgia arzachenese.
In quali circostanze e con quale finalità ha deciso di scrivere questo libro? Quando decisi di scrivere il libro “L’ultima Gallura”, vedevo i sintomi di una decadenza gravissima della nostra economia tradizionale e della nostra cultura. Iniziai a pormi tante domande sul destino della Gallura, sospettando che i nostri governanti, per ignoranza della storia e disinteresse, non sarebbero stati capaci di capire e risolvere i problemi connessi alla trasformazione dell’economia rurale. Tra gli anni Settanta e Ottanta l’opinione pubblica, inebriata dal successo del turismo nella nostra regione, non prendeva nemmeno in considerazione l’esigenza dei pastori, depositari dei valori culturali che avevano fatto grande la Gallura, di essere tutelati. A me non restava che assistere, impotente, alla distruzione di un patrimonio economico e culturale di cui qualsiasi comunità sarebbe andata fiera. Mi domando spesso quale forza mi abbia spinto a non rassegnarmi. Ho deciso, così, di divulgare le mie convinzioni circa la storia passata, alla quale ho aggiunto varie ipotesi su quella futura prefigurabile, analizzando la politica economica e sociale dell’attuale classe dirigente, che io reputo responsabile di un fallimento. Attraverso questa pubblicazione ho voluto raccontare la storia della Gallura degli stazzi così come la interpreto io, e illustrare un possibile progetto politico per la salvaguardia dell’economia rurale, non proposto dalla classe dirigente, ma da un semplice pastore quale io sono. Questo è un libro di protesta, di polemica contro tutti coloro che hanno rovinato la Gallura, compresi gli amministratori a tutti i livelli e la classe intellettuale, che ha voltato le spalle alla nostra cultura. Siamo arrivati al punto tale che oggi un povero pastore vecchio e decrepito come me è l’unica persona che conosce la storia degli stazzi.
La stesura del libro risale agli anni Novanta. Per diverse ragioni, non mi fu possibile pubblicarlo subito dopo. Il volume ha carattere documentario; non ho mai inteso e non intendo insegnare niente a nessuno, sia chiaro. Le considerazioni che faccio costituiscono la sintesi del mio sapere, portato dell’esperienza, e pertanto appartengono al patrimonio culturale di tutti i pastori. Nella trattazione dei vari temi non ho seguito uno schema organico, ma ho preferito affidarmi all’estemporaneità, a me più congeniale. Considero questo modesto lavoro un atto di doverosa e parziale riparazione delle mie negligenze verso l’amata terra di Gallura, alla quale tanto debbo e troppo poco ho dato.
Quando iniziò il declino della civiltà degli stazzi? Quando ha cominciato ad affermarsi il turismo, lo stazzo era ancora efficiente. Certo, non lo era come nel passato, perché era accaduto che l’economia dello stazzo, che si fondava sull’allevamento bovino e ovino e sulla cerealicoltura, rimaneva attiva solo per quanto riguardava l’allevamento del bestiame. La carne bovina, infatti, aveva ancora un buon valore. Con la nascita del turismo, una parte dei lavoratori della campagna abbandonò l’attività per inserirsi nel settore dell’edilizia. Contemporaneamente si verificò un altro fatto: venne applicata una nuova legge, la legge De Marzi-Cipolla, che vietava totalmente l’istituto della mezzadria, e poiché una parte dei nostri stazzi non era gestita direttamente dai proprietari, ma dai mezzadri, accadde questo fenomeno: si deteriorarono i rapporti di lavoro tra i proprietari e i mezzadri. Molti mezzadri ne approfittarono per abolire la mezzadria e sfruttarne i vantaggi, che erano tutti a favore degli agricoltori. L’attrito fra i proprietari e i mezzadri venne attenuato dallo sviluppo del turismo dell’edilizia, per cui i mezzadri abbandonarono gli stazzi per dedicarsi ai lavori di manovalanza verso la costa. Lo stazzo visse un momento di crisi, ma sopravvisse. Poi, intorno agli anni ’80-’90, si verificò il crollo dei prezzi della carne bovina; di conseguenza, l’agricoltura e la produzione di carne persero valore, determinando la morte di quello che era stato il fattore più importante dello sviluppo sociale e civile della Gallura.
Nel libro fa uso della prima persona plurale, come se si facesse portavoce del pensiero e dei valori della categoria dei pastori… Sì, nella prima e nella seconda parte del libro ho trattato i vari argomenti facendo uso della prima persona plurale: un atto di doverosa modestia e al tempo stesso la presunzione di rendermi interprete del pensiero dei pastori, ai quali ho voluto dare voce. Nelle vicende riguardanti la storia degli stazzi la mia esperienza personale risulta sovrapponibile, per molti aspetti, a quella di tanti altri pastori galluresi, per questo ho voluto offrire ai lettori una sorta di autoritratto biografico.
Quando si parla di stazzo gallurese, cosa si intende? Per stazzo gallurese si intende un’azienda agricola con una superficie di terreno sufficiente per esercitare l’allevamento e l’agricoltura, un’azienda che sia dotata di una casa, ossia l’abitazione per chi deve lavorare lì.
E le cussorgie, invece, cosa sono? Quando vigeva il feudalesimo, la cussorgia aveva significato e valore: per cussorgia si intendeva un vasto territorio entro il quale un pastore era autorizzato a pascolare il bestiame. Passato il feudalesimo, sono nate le proprietà private. Di queste cussorgie oggi è rimasto solo il nome. La cussorgia per noi pastori è soltanto una denominazione geografica.
Che ricordo ha della sua infanzia trascorsa nello stazzo? Non ho un buon ricordo, in quanto all’età di 4 anni venni colpito dalla malaria in una forma talmente grave che i medici mi diedero pochi giorni di vita. La malaria sconvolge tutto l’organismo, causando una crescita stentata, anormale. Veniva combattuta con il chinino. La malaria aprì profonde piaghe nel corpo e nello spirito. Rimasi molto turbato per la sofferenza patita. Fu un momento particolarmente delicato per la formazione del mio carattere. La conseguenza principale fu la timidezza, di cui soltanto in parte, e con il tempo, mi sarei liberato. Sono arrivato a questa veneranda età, è vero, ma ho sofferto tanto, ho avuto una vita tormentata dalle malattie. Riconosco, però, di aver avuto grande forza di volontà. La mia è stata un’infanzia difficile e solitaria. La vita nello stazzo sarebbe stata monotona per la maggior parte dei ragazzi, ma non lo fu mai per me. Riconosco che la solitudine, in cui vivevo buona parte delle mie esperienze, era confacente al mio temperamento, decisamente incline all’individualismo. Nonostante ciò, ebbi modo di frequentare alcuni ragazzi, a cominciare da un capraio che era stato ceduto dalla famiglia ad un mezzadro nostro confinante, affinché governasse il gregge al pascolo. Mi insegnò a costruire e usare la fionda, il carro a buoi in miniatura, a conoscere gli uccelli e tante altre cose. L’amicizia con altri due ragazzi vicini di stazzi dura tuttora. L’amicizia ha svolto un ruolo fondamentale nella mia vita e ha contribuito grandemente alla formazione del mio carattere.
Lei ha avuto modo di studiare e diplomarsi, riuscendo ad esercitare per oltre vent’anni l’attività di maestro. I suoi genitori avevano compreso bene l’importanza della cultura, di una solida formazione culturale. Nonostante per anni abbia affiancato all’attività di pastore e agricoltore quella di insegnante, lei si definisce orgogliosamente pastore. Quali sono le peculiarità dei pastori galluresi? Io nasco pastore e mi sento ancora tale. Il pastore gallurese è un pastore sui generis, infatti in Gallura le due attività agricoltura e pastorizia convivono nella stessa azienda. Noi abitatori degli stazzi siamo nati come pastori, ma nell’Ottocento abbiamo sviluppato anche l’agricoltura. Io sono vissuto nello stazzo fino all’età di 18 anni. I pastori abbienti avevano capito il valore della cultura, perciò si impegnavano per consentire ai figli di studiare. Mio padre e mia madre mandarono a studiare alla Maddalena sia me che mia sorella: mia sorella al collegio delle suore, io presso case private. Poiché non ero portato per lo studio, anziché fare il liceo, preferii procurarmi il diploma magistrale. Quella di maestro divenne, poi, la mia attività principale che, con la crisi dello stazzo, mi ha dato da vivere. Per un certo periodo ho svolto due attività: ho fatto contemporaneamente l’insegnante e l’agricoltore.
Ha affermato che suo padre cercò sempre di liberarla dal lavoro fisico, nonostante il suo desiderio di lavorare nello stazzo. Preziose informazioni in merito alle attività lavorative dell’ambiente le ricevette dai collaboratori di suo padre, dai mezzadri, con cui intratteneva lunghe conversazioni e di cui conserva un ricordo particolarmente caro… I proprietari venivano dispensati dal lavoro fisico. Deve sapere che le persone benestanti desiderose di lavorare erano molto criticate, in quanto entravano in concorrenza con le persone nullatenenti che avevano bisogno di lavorare, negando loro ciò che gli serviva per vivere. Mio padre si interessò sempre della campagna, senza mai consentirmi alcuna compartecipazione. Per malinteso sentimento d’amore, volle sempre dispensarmi dalle fatiche del lavoro fisico; in realtà mi causò soltanto danno. Quando ero bambino, negli stazzi anche i ragazzini avevano i loro impegni di lavoro, mentre io ne ero totalmente dispensato. Per me, che avevo tanta voglia di apprendere, i collaboratori del babbo, mezzadri nostri vicini, ospiti occasionali costituivano la fonte preziosa ed inesauribile delle informazioni su cui avrei costruito il mio sapere e la conoscenza dell’ambiente. Mi affascinavano con i loro racconti e le lunghe, quotidiane conversazioni. Gli serberò sempre perpetua gratitudine per avermi trattato da adulto. Mi parlavano delle esperienze di vita e mi confidavano i problemi, spesso gravi, che li angustiavano. Notando la mia attenta partecipazione al dialogo, mi svelavano, con insolita e fiduciosa sincerità, il loro vero stato d’animo. Fu così che imparai a capire le loro ragioni. Tutte queste esperienze contribuirono progressivamente alla formazione del mio carattere. Cominciai prestissimo, fin dall’infanzia, ad oppormi alle storture che in quella società non mancavano. Il mio modo di contestare quelle ingiustizie non sempre veniva apprezzato in famiglia, anche perché lo manifestavo con irritante determinazione. Meno ancora lo avrebbero tollerato certi notabili del paese, dove controvoglia mi trasferii, all’età di 18 anni, seguendo la famiglia che aveva deciso di inurbarsi. La mia sincera contestazione degli abusi compiuti da molti cittadini benestanti ai danni dei lavoratori veniva scambiata per adesione al partito politico che più apertamente ne aveva assunto la tutela. Io, invece, guardavo con diffidenza alla politica, della quale notavo soprattutto gli aspetti negativi.
Nel libro scrive: tra l’infanzia e l’adolescenza, l’esperienza più negativa, dopo la malattia, la feci nella scuola. Perché ha questo ricordo così negativo della scuola? Ho sempre odiato la scuola per varie ragioni. Innanzitutto perché mi costringeva ad allontanarmi dalla famiglia, dove trovavo la protezione necessaria per non essere sopraffatto dalla timidezza; poi perché interrompeva, seppure temporaneamente, il rapporto con la natura, di cui avevo assoluta necessità. Ricordo bene, inoltre, la mancanza di sensibilità di alcuni docenti, che disprezzavano gli allievi come me, particolarmente bisognevoli di sostegno didattico e di qualche incoraggiamento. Il profitto, anche a causa delle mie scarse capacità, fu sempre pessimo; soltanto alla fine del corso scolastico ottenni qualche apprezzabile risultato. Appresi poco, però, da maestri e professori.
In compenso ha avuto una maestra d’eccezione: la Natura… Sì, la natura mi ha insegnato tante cose. Nei suoi confronti provo un sincero amore filiale: darei la vita per preservarla dalle devastazioni che le causa la nostra umanità ingrata e malvagia. Purtroppo non ho la facoltà di trasformare in atti concreti di tutela i miei sentimenti; vivo nell’angoscia, assistendo quotidianamente all’ineluttabile distruzione dell’ambiente naturale.
Una volta passato dall’altra parte della cattedra, la scuola le ha anche dato tanto, restituendole tutto quello che le aveva negato da studente… Sì, ho avuto il piacere di venire a contatto con gli alunni, che sono stati dei figli per me, e anche con i genitori. Due o tre anni fa una mia classe, oggi composta da adulti di 55-56 anni, a distanza di circa 50 anni, mi ha dedicato una festa. È rimasto un grande affetto, come se fossero davvero dei figli. Ho avuto alunni bravi e meno bravi, ma tutti carissimi sotto l’aspetto umano. Li porto tutti nel cuore.
Poi, però, si licenziò per dedicare tutto il suo tempo e le sue energie all’azienda di famiglia, sperando di renderla produttiva come un tempo. Cosa accadde? Quali difficoltà dovette affrontare? Dopo il matrimonio, i genitori mi cedettero la quota di proprietà che mi spettava. Non fu un momento facile per me. Infatti, sebbene vissuto in campagna e fra i pastori, non ne conoscevo il mestiere. Dovetti, pertanto, costruirmi da autodidatta quella cultura del lavoro che normalmente veniva acquisita sotto la guida paterna e con lunga esperienza. Per quanto riguarda il lavoro fisico, non incontrai alcuna difficoltà, avendo sviluppato durante l’adolescenza, mediante il gioco, manualità ed inventiva. Ciò che mi turbava era la gestione dell’azienda, con i vari problemi connessi. Cominciai ad analizzare i vari problemi, confidando soltanto nelle mie capacità per risolverli. Trascorso qualche anno, mi sembrava d’avere una chiara visione della realtà economico-sociale della Gallura rurale. Fu proprio allora che il legame con la terra e la natura si rinsaldò fortemente. Dopo 25 anni di insegnamento, all’età di 44 anni mi licenziai dalla scuola. Io non ero più impegnato, ero un imprenditore agricolo. Compresi che poteva essere salvata non solo l’economia dello stazzo, ma anche buona parte dei valori espressi dalla nostra cultura. Sorretto da questa convinzione, mi impegnai per rendere produttiva la porzione di terra ereditata, una frazione di quello che era stato, fino a non molto tempo prima, uno stazzo sufficientemente vasto ed efficiente. Per l’azienda furono stanziati duecento milioni, di cui cento a fondo perduto. Io ho fatto tutti i lavori necessari, investendo una vita nello stazzo, ma dello stazzo non se ne fece più nulla. Mentre io spendevo le mie energie fisiche e mentali per trasformare una landa in un’azienda economicamente valida, i nostri uomini politici non si degnavano neppure di pensare alle sorti della Gallura rurale. Privo di risorse finanziarie, avevo confidato nella rinascita dello stazzo gallurese che, invece, sul finire del secolo, concluse la sua storia.
Si è pentito di quella scelta? Sono nato nello stazzo e, diversamente da quanto avevano fatto i giovani della mia generazione, non ho voluto distaccarmene, legando la mia sorte alla sua. Non mi pento di niente: nella vita si può vincere o perdere; io ho perso. Una sconfitta ancora più grave hanno subito i tanti pastori galluresi che, fin da ragazzi, avevano fondato totalmente sul lavoro negli stazzi la loro esistenza di uomini liberi e onesti. Nonostante il totale fallimento, sono convinto di aver fatto il mio dovere e di essere stato coerente con me stesso. Come immagina il futuro della Gallura? Purtroppo penso che andremo incontro a un terribile fallimento, in quanto buona parte dei terreni della Gallura non appartiene più ai galluresi: i proprietari di stazzi hanno venduto ai forestieri le loro terre, per cui ora la Gallura appartiene ai forestieri che utilizzano questi terreni a scopo residenziale. Nelle nostre campagne sono sorte case belle e confortevoli, ma in contrasto con la tipologia costruttiva tradizionale. Siamo un popolo senza terra e un popolo senza terra è destinato a scomparire. Non abbiamo prospettive: perdiamo la lingua, le tradizioni, non siamo più padroni della nostra terra, non possiamo più produrre. La nostra cultura, che tanto lustro ha dato alla nostra terra, non ha più speranza di salvarsi, purtroppo.