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La ferita non si rimargina. Dopo 20 anni la strage del Moby Prince resta un groviglio buio di dolore, di rabbia, di domande senza risposta e di vuoti inquietanti. In quella tragica sera dell’11 aprile del 1991 nella rada di Livorno morirono 140 persone. Trenta di loro erano sardi. Un solo superstite: il mozzo Alessio Bertrand. Un’inchiesta piena di dubbi e di omissioni e una storia giudiziaria tormentata che alla fine ha dato poche, deludenti, risposte. La verità su cosa accadde, in una tiepida sera di primavera, resta ancora sfuggente. E molti, troppi, indizi fanno credere che qualcuno abbia lavorato in tutti questi anni per occultare una verità che fa paura. Molto più di semplici fantasmi evocati dal sentimento incompiuto di non volersi rassegnare, dall’incapacità di elaborare un lutto doloroso. E quanto la ferita sanguini ancora lo raccontano molto bene le parole dolenti, ma allo stesso tempo estremamente dure di Luchino Chessa, il figlio del comandante del traghetto che andò a schiantarsi contro la petroliera Agip Abruzzo alle 22,25 di quel terribile 11 aprile e portavoce dell’associazione che raccoglie i familiari delle vittime “10 aprile”: «Dopo vent’anni noi, familiari delle vittime, siamo disgustati, indignati, arrabbiati e da molto tempo non ci sentiamo tutelati dallo Stato. In certi momenti ci vergogniamo di essere cittadini italiani. Certamente non ci fermeremo». Secondo la fragile verità giudiziaria sarebbe stata la nebbia l’elemento causale, o quanto meno l’elemento che concorse in modo determinante al più grave disastro della storia della marineria civile in Italia. Ma la vera nebbia sembra invece essere quella cortina impalpabile che è cresciuta, si è diffusa e dilatata, insinuandosi tra le pieghe dell’inchiesta, deformando e distorcendo fatti, quasi a mascherare un’inconfessabile verità che potrebbe portare al disvelamento di responsabilità inimmaginabili. Dice Loris Rispoli, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime “140”: «Credo che un percorso giudiziario ci sia ancora e non sia terminato, verificheremo per chiedere un diverso capo d’imputazione. Un reato come quello del Moby non può andare in prescrizione perché non va in prescrizione il dolore dei parenti». «Daremo battaglia – ha aggiunto Rispoli – per qualsiasi forma di processo breve e che leda i diritti delle parti offese». Sulla sciagura avvenuta davanti alle coste di Livorno il 10 aprile 1991 è stato celebrato un processo (arrivato fino alla Corte d’appello) senza condanne ed una seconda inchiesta archiviata a dicembre. «Non è possibile – prosegue Rispoli – che non ci sia una verità processuale, che non ci siano responsabilità». La partita, dunque, non è ancora chiusa. Nonostante la procura della Repubblica di Livorno si sia incredibilmente arresa dopo aver riaperto l’inchiesta su istanza dell’avvocato Carlo Palermo. Palermo, ex magistrato che portò a galla un colossale traffico d’armi che lambiva il potere politico e poi entrò nel mirino di Cosa Nostra, era riuscito a trovare il grimaldello per riaprire la porta che chiudeva la strada verso la verità. Mettendo insieme elementi sottovalutati o dimenticati della prima inchiesta e fornendo nuovi indizi, aveva disegnato uno scenario inquietante: quella sera, nel porto di Livorno era in corso un traffico d’armi tra una nave civile militarizzata americana di ritorno dall’Iraq e misteriose imbarcazioni che si muovevano silenziosamente nelle acque del porto di Livorno. Il Moby Prince si trovò, inconsapevolmente, in mezzo a quel traffico frenetico e, forse, per evitare una collisione finì poi contro una fiancata della petroliera Agip Abruzzo. Luchino e Angelo Chessa, che hanno anche dovuto subire l’onta di vedere messa in dubbio la professionalità del loro padre, morto anche lui nel terribile rogo di vent’anni fa, non si arrendono. Sembra che un loro consulente tecnico, Gabriele Bardazza, abbia riesaminato le registrazioni delle comunicazioni radio e sulla frequenza 2,182 mega Hertz, diversa da quella del canale 16 sul quale sono passate gran parte delle comunicazioni di quella tragica notte. Ebbene, il consulente avrebbe rilevato alcuni messaggi lanciati alle 22,56, cioè circa 31-32 minuti dopo la collisione tra il Moby Prince e l’Agip Abruzzo, da un uomo che parla in modo concitato. «Non ci sente nessuno», si dispera. E pochi secondi più tardi: «Siamo sempre qui». Si tratterebbe di comunicazioni non incluse nelle indagini sul disastro. Potrebbero essere le ultime disperate grida che arrivavano dal Moby che si stava trasformando in un’immensa bara incandescente di metallo. Se così fosse, si avrebbe la conferma che i tempi di sopravvivenza a bordo del traghetto sarebbero stati superiori ai 20-30 minuti fissati dai consulenti tecnici della procura e del tribunale. E che quindi, se i soccorsi fossero stati più tempestivi, altre persone, oltre al mozzo Alessio Bertrand avrebbero potuto salvarsi. Forse un grimaldello per riaprire l’inchiesta.