di JEAN-YVES FRÉTIGNÉ (con premessa di PAOLO PULINA)
Il Professor Jean-Yves Frétigné è Maître de conférences in Storia contemporanea presso l’Università di Rouen-Normandie. Agrégé d’histoire, dottore in Storia presso l’IEP di Parigi sotto la direzione di Pierre Milza è stato membro dell’École française di Roma. Presidente della Società di studi francesi sul Risorgimento italiano ha scritto numerosi saggi e volumi su temi di storia politica, storia culturale e storia delle idee, in particolare sul Risorgimento italiano, sulla costruzione dello Stato in Italia, sulla Questione meridionale, sui rapporti tra Francia e Italia tra Otto e Novecento. Autore di dieci monografie e oltre cento articoli e saggi, ha pubblicato in traduzione italiana i volumi “Dall’ottimismo al pessimismo: itinerario politico e intellettuale di Napoleone Colajanni dalla svolta liberale al fascismo (1903-1921)”, prefazione di Carlo Ghisalberti, Roma, Archivio Guido Izzi, 2007, e “Giuseppe Mazzini: il pensiero politico”, prefazione di Salvo Mastellone, Firenze, CET, 2009.
Fretigné si è occupato anche di due prestigiose personalità sarde: Giorgio Asproni e Antonio Gramsci.
Al primo ha dedicato il saggio “La Parigi imperiale nel ‘Diario politico’ di Asproni: un giudizio politico e morale sulla Francia”.
Dopo essersi occupato della ricezione in Francia delle opere e del pensiero di Gramsci, ha scritto nel 2017 la prima biografia in francese consacrata al grande intellettuale sardo: “Antonio Gramsci, vivre c’est résister” (Paris, Colin, pp. 317). La traduzione di quest’opera in inglese (americano) è stata pubblicata da The University of Chicago Press nel 2021.
Nel 2021 ha pubblicato presso Gallimard (pp. 800), in formato tascabile, “Cahiers de prison, anthologie d’Antonio Gramsci”, con introduzione e note inedite.
Se in questa occasione ci si occupa della recente traduzione italiana (curata da Vanessa Farnocchia per l’Editoriale Scientifica di Napoli) della sua “Histoire de la Sicile des origines à nos jours”, pubblicata per la prima volta in francese nel 2009 (presso Fayard) e riedita nel 2018 in formato tascabile (coll.“Pluriel”) è perché abbiamo avuto dall’autore e dalla casa editrice la gentile autorizzazione a riprodurre alcune pagine in cui viene data una esauriente spiegazione di come Casa Savoia, dopo aver avuto per alcuni anni la Sicilia, col trattato di Londra (1720), la cedette in cambio della Sardegna. (Paolo Pulina)
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Giuseppe I d’Asburgo (Vienna, 1678 – Vienna, 1711) è stato Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1705 alla morte, nonché Re di Ungheria e Boemia e Arciduca d’Austria.
Dopo la sua morte improvvisa, il 17 aprile 1711, per vaiolo, il futuro della Sicilia non è affidato al destino delle armi ma a quello della diplomazia. Gli alleati del trattato dell’Aia non vogliono una ricostituzione dell’Impero di Carlo V a profitto di Carlo VI che è diventato re di Spagna dal 1706. Si decide così con una serie di trattati – Utrecht l’11 aprile 1713, Rastatt il 7 marzo 1714, Baden il 7 settembre 1714, e Anversa il 15 novembre 1715 – di ridisegnare la mappa dell’Europa. Filippo V rimane re di Spagna e mantiene le sue colonie oltreoceano, ma rinuncia ai suoi possedimenti in Europa, la maggior parte dei quali spettano a Carlo VI, a eccezione del regno di Sicilia che passa, secondo una delle clausole del trattato di Utrecht, al duca di Savoia Vittorio Amedeo II (1666-1732), ricompensato in questo modo per il suo prezioso aiuto militare e pecuniario alla grande alleanza dell’Aia.
Non appena è reso noto ai siciliani l’avviso ufficiale di questo trasferimento di sovranità, diversi nobili di alto lignaggio si recano immediatamente a Torino per rendere omaggio al loro nuovo sovrano. Orgoglioso di quest’acquisizione e ansioso di riconciliarsi ed entrare nelle grazie dei suoi nuovi sudditi, Vittorio Amedeo II si reca nell’isola nell’ottobre 1713 e giura di rispettare i privilegi del regno. Un tale passo soddisfa ovviamene l’orgoglio dei siciliani, che non avevano accolto il loro sovrano in Sicilia dalla lontana visita di Carlo V nel 1535. Tuttavia, l’idillio è di breve durata e lascia presto il posto alla reciproca incomprensione. Dal punto di vista di Torino, l’acquisizione della Sicilia non presenta solo vantaggi. Alcuni accordi firmati dopo il trattato di Utrecht tra Filippo V e Vittorio Amedeo II limitano la sovranità di quest’ultimo sull’isola, poiché il re di Spagna mantiene alcuni domini in feudo proprio, tra cui la vastissima e ricchissima contea di Modica. Inoltre, Casa Savoia avrebbe soprattutto voluto acquisire il Milanese per imporre Torino come capitale dell’Alta Italia. Non a caso, il centro degli interessi di Vittorio Amedeo II rimane ancorato al nord dell’Italia; così rimane solo un anno in Sicilia prima di tornare nel suo amato Piemonte, affidando le sorti dell’isola a un viceré. Da un punto di vista strettamente giuridico, il contrario sarebbe stato più legittimo, poiché, acquisendo la Sicilia, il duca di Savoia Vittorio Amedeo II acquisisce il titolo di re. Ma ciò che colpisce di più l’élite siciliana è la politica del loro nuovo sovrano. Se Messina continua a deplorare che i divieti che gravano su di essa non sono revocati, l’ostacolo principale alla buona intesa tra Vittorio Amedeo II e i baroni siciliani, ossia al buon funzionamento delle istituzioni che regolano la vita dell’isola, è la volontà di Torino di razionalizzare l’amministrazione attraverso la soppressione delle varie franchigie sconosciute in Piemonte, la drastica limitazione dei poteri della Deputazione del Regno (la gestione delle imposte le sarebbe sottratta perché le indagini avviate dal nuovo viceré hanno dimostrato che essa dava spesso luogo ad abusi e frodi) e, infine, attraverso la confisca dei beni dei baroni che avevano creato centri abitati senza licenza reale.
La goccia che fa traboccare il vaso è la posizione intransigente di Torino nella crisi iniziata nell’autunno del 1711 tra la Santa Sede e il re di Spagna, crisi nota come controversia di Lipari. L’intera faccenda inizia con una manciata di ceci che il vescovo di Lipari mette in vendita. Secondo la legge in vigore in questa piccola isola al largo della costa settentrionale della Sicilia (che è in parte diversa da quella della grande isola, poiché il vescovo di Lipari è l’unico vescovo siciliano nominato esclusivamente dalla Curia), i prodotti ecclesiastici non sono soggetti a tassazione. Eppure, i catapani dell’isola, cioè gli agenti incaricati di controllare i mercati, tassano per errore i ceci, non credendo che provengano dai giardini del vescovado. Benché si siano resi conto del loro errore e abbiano chiesto clemenza a Monsignor Tedeschi, questi non esita a scomunicarli perché esige delle scuse pubbliche che il governatore dell’isola si rifiuta di concedere. La vicenda si inasprisce perché papa Clemente XI (1700-1721) è ostile a Filippo V. Inoltre, quando quest’ultimo recupera il trono di Spagna nel 1713, l’affare assume proporzioni notevoli che finiscono per rimettere in discussione l’equilibrio tra i privilegi ecclesiastici e le prerogative reali disciplinate in Sicilia dalla Legazia Apostolica concessa al Grande Conte Ruggero da Papa Urbano II nel 1097. Quando Vittorio Amedeo II arriva a Palermo, diversi vescovi sono costretti all’esilio, mentre Roma mette al bando tre diocesi (1714), decisione che è immediatamente annullata dal Tribunale della monarchia. Per cercare una soluzione a questa delicata situazione che avvelena la vita dei suoi sudditi, perché i fedeli non possono fare a meno di pensare che i veri preti e vescovi siano quelli che non vogliono più dire messa e amministrare i sacramenti, Vittorio Amedeo II decide di istituire una commissione che affermi la difesa dei diritti dello Stato di fronte alle richieste della Chiesa. La questione si conclude qualche tempo dopo con Filippo V che, contrariamente alla sua precedente decisione, abolisce nel 1718 la Legazia Apostolica affinché l’esercizio del culto possa riprendere. Questa politica di riconciliazione con il papa prosegue con Carlo VI d’Austria al punto che Benedetto XIII, papa dal 1724 al 1730, ristabilisce nel 1728 la Legazia Apostolica in una versione modificata in modo più favorevole a Roma. […]
All’indomani dei trattati di pace che pongono fine alla guerra di successione spagnola, il Mediterraneo rimane al centro delle ambizioni rivali dell’imperatore Carlo VI e Filippo V di Spagna. Gli Asburgo intendono trasformare l’Adriatico in un lago austriaco con porto franco Trieste, nel cuore di una vasta area economica che collega il Mare del Nord al Mediterraneo. Questa strategia espansionistica a ovest, difesa da Leopoldo I e sostenuta dal partito imperiale, il cui più brillante rappresentante è Eugenio di Savoia, si scontra con gli interessi della potente nobiltà boema e morava, favorevole al consolidamento dell’Impero a est a spese degli ottomani. Giuseppe I e Carlo VI continuano il lavoro di Leopoldo I. In questo contesto politico, la Sicilia è un elemento chiave, soprattutto perché, a differenza della Sardegna, ha un’importante popolazione che è potenzialmente produttrice e consumatrice. Carlo VI pensa così di invadere la Sicilia partendo da Napoli dove tiene in riserva un’importante flotta. Da parte sua, Filippo V, incoraggiato da sua moglie Elisabetta Farnese, che desidera troni in Italia per i suoi figli Carlos e Filippo, sviluppa una politica italiana il cui principale artefice è il cardinale Alberoni, che lavora per ricostruire la potenza navale spagnola. La morte di Luigi XIV (1715) cambia la situazione internazionale poiché il Reggente abbandona l’ultimo grande disegno politico del Re Sole, così come esposto nelle sue Istruzioni agli ambasciatori di Francia. Pensando di succedere a suo fratello sul trono di Francia –la salute del giovane Luigi XV suscita in quel tempo molte preoccupazioni –, Filippo d’Orléans (1674-1723), magistralmente servito dall’abate Dubois (1656-1723), si avvicina all’Inghilterra di Giorgio I (re dal 1714 al 1727), senza il cui sostegno non può sperare di contrastare le ambizioni di Filippo V per il trono di Francia, al quale quest’ultimo ha rinunciato solo verbalmente. Consapevole dei limiti della grande alleanza, l’inglese Stanhope (1673-1721) incontra segretamente Dubois all’Aia nel 1716 ed elabora un programma per risolvere i problemi di successione: i diritti di Filippo V al trono di Spagna sono riconosciuti in cambio del rinnovo della sua rinuncia al trono di Francia. Durante questo incontro, è ancora previsto lo scambio della Sicilia e della Sardegna tra Carlo VI e Vittorio Amedeo II. Ma il progetto è respinto energicamente da Madrid che decide di reagire con la forza. Se la conquista della Sardegna è facile, la guerra in Sicilia prende una piega più drammatica. Quando le truppe spagnole, comandate dal generale Lede, sbarcano in Sicilia nel giugno 1718, sono accolte alle grida di “Viva Filippo, Viva il Papa”. Il viceré piemontese Annibale Maffei (1666-1735) è costretto a rifugiarsi nel castello Maniace di Siracusa. Dopo la loro vittoria sui turchi, sancita dalla pace di Panarowitz nel luglio 1718, gli austriaci hanno mano libera per intervenire in Italia, tanto più che l’idea di scambiare le due grandi isole del Mediterraneo è accettata sia da Carlo VI che da Vittorio Amedeo II. Il 28 febbraio 1719, gli eserciti imperiali approdano in Sicilia. Benché le truppe siano private dei rinforzi via mare dopo che la flotta inglese ha distrutto l’armata di Alberoni al largo di capo Passero, il marchese di Lede non intende arrendersi prima di avere ricevuto un ordine formale da Madrid. Continua a combattere, tanto più che è sostenuto dalla popolazione siciliana. L’isola che non aveva visto la guerra sul suo suolo dai tempi dei Martino all’inizio del XV secolo, è di nuovo teatro di operazioni militari estremamente violente. Se i siciliani rimangono spettatori nello scontro che oppone principalmente gli spagnoli agli austriaci, la loro terra è insanguinata e devastata da eserciti che non esitano a praticare la politica della terra bruciata. La sua marina e i suoi arsenali sono distrutti, la Spagna è costretta a capitolare. Il 6 maggio 1720, il marchese di Lede firma gli articoli che prevedono l’evacuazione delle sue truppe dal regno di Sicilia. Con il trattato di Londra dell’8 agosto 1720, la Sicilia è ufficialmente ceduta dalla Savoia all’Austria in cambio della Sardegna, di cui Vittorio Amedeo II diventa re.
Se Vittorio Amedeo non è riuscito a modernizzare il sistema amministrativo, ha in compenso la possibilità di portare con sé a Torino l’artista messinese Filippo Juvara (1678-1736), che diventa l’architetto di Corte – a lui si deve la Basilica di Superga – e due giuristi siciliani, Francesco d’Aguirre (1681-1753) e Nicola Pensabene (1660-1730), che sistematizzeranno la legislazione piemontese sull’istruzione».
Bravissimo sempre, Paolo Pulina! Esauriente e illuminante la disanima storica del periodo antecedente la conquista rovinosa della Sardegna!
Linguaggio chiaro e coinvolgente.
Grazie!