di GIOVANNI DESSOLE
«Mi sono ritrovata al centro dell’Antartide, all’interno della base di ricerca permanente italo francese Concordia. Le basi americana e russa distavano 600 chilometri, quelle costiere 1000. Gli esseri umani più vicini erano quelli orbitanti 400 chilometri sopra di noi nella stazione spaziale. Uno sconfinato oceano ghiacciato e il silenzio rotto solo dal rumore dei passi».
In Antartide, immersa e isolata fra i ghiacci, Giuseppina Canestrelli, 65 anni, ci ha vissuto per un anno. Era in missione per conto di Enea – agenzia nazionale per le nuove tecnologie – per il Programma nazionale di ricerche in Antartide. È un medico anestesista rianimatore Giusi, primaria di Cardioanestesia e Terapia intensiva del Santissima Annunziata di Sassari. «Cinque anni fa avevo fatto richiesta di selezione, mi avevano presa ma ero appena diventata responsabile del reparto e ho dovuto rinunciare. Il 29 dicembre 2020 però ricevo una telefonata dell’Enea. Mi chiedono la disponibilità ad affrontare nel ruolo di medico la campagna invernale nella stazione italo-francese Concordia. La direzione sanitaria dell’ospedale mi ha concesso il nulla osta»
Tutto è rapidissimo: «Avevo passato test e visite mediche. Normalmente, una volta formata l’équipe, si fa una settimana di corso sul Monte Bianco, testando situazioni estreme, reazioni all’alta quota e vita in comune. Io avevo una settimana, c’erano di mezzo le feste. Tutto è accaduto in un lampo: ero idonea, speravo e speravamo tutti che ce la potessi fare. Mi scadevano carta di credito e patente, dovevo organizzarmi, su tutti i fronti. C’erano da sistemare delle cose fra casa e lavoro. Ce l’ho fatta. Il 7 gennaio sono partita e dopo 15 giorni di quarantena in Nuova Zelanda ho raggiunto il plateau antartico».
Lo spettacolo che le riempie lo sguardo mentre cala sui ghiacci a bordo di un aereo a elica della seconda guerra mondiale è ancora oggi nei suoi occhi: «Ero frastornata, vedevo solo una sconfinata distesa di ghiaccio. Poi ecco la base, sita nella zona Dome-C del plateau a circa 4000 metri di altezza e sviluppata su due torri e tre piani collegati da scale».
La scena richiama alla mente immagini da stazione orbitante: «Effettivamente nella struttura venivano fatti studi su comportamenti e reazioni dell’equipaggio anche in funzione di viaggi nello spazio. Nella base c’è sempre un giovane ricercatore medico che per conto dell’Ente spaziale europeo porta avanti progetti e studia i vari processi. Vengono fatti prelievi periodici, per vedere come cambiano le componenti nel sangue».
Fuori il gelo, all’interno spazi comuni e ambienti dedicati alle attività specialistiche e specializzate: «Quando sono arrivata siamo rimasti in 12. C’erano 6 italiani fra cui oltre me un cuoco, un glaciologo, un fisico, un station leader, un esperto di sismologia e geomagnetismo – racconta Giusi –. Le 12 persone vanno poi a comporre diversi staff fra sicurezza della base, pompieri, recupero esterno e sanitario composto da me, dal glaciologo italiano, dallo station leader e dal ricercatore. La base va manutenuta, come del resto va garantita la salute delle persone: un blackout o un incendio possono mettere a serio rischio tutti».
Com’è essere medico in una base d’Antartide? «La struttura è attrezzata. Potevo fare interventi in anestesia generale, avevamo apparati radiologici, ventilazione e il supporto della telemedicina. Chiaro che per quanto attrezzati, nel pieno dell’inverno, una degenza prolungata può diventare un problema. Ho avuto tre casi abbastanza seri, ma tutto si è risolto. Il Covid? Non è mai arrivato».
La giornata tipo Comincia «alle 8 e finisce alle 18. Si cena alle 19.30, quindi ci si ritrova in sala comune. A disposizione ci sono una biblioteca, televisione, cineteca, giochi di società. Prima di cena ci scappa anche un aperitivo. E non mancano i momenti di svago: per il Midwinter, a giugno, tutte le basi dell’Antartide fanno festa è c’è anche un festival cinematografico con le équipe a produrre i loro cortometraggi».
Lavorare significava spesso uscire dalla base: «Gli scientifici uscivano tutti giorni in un ambiente ostile. Si lavora bardati di tutto punto e con le radio, ma ogni 15 minuti bisogna rientrare nei container a riscaldarsi. Se poi il vento supera gli 11 metri al secondo è impossibile uscire, si solleva il pulviscolo e la visibilità è zero. In inverno si arriva anche a -120°».
Giusi invece usciva «molto meno rispetto agli altri, mi regalavo un quarto d’ora di passeggiata. L’aria è secchissima. Si fanno i conti con una condizione di affanno continuo. Là fuori hai la consapevolezza di essere in un deserto di niente in cui tu sei una delle uniche forme di vita presenti».
Mai avuto paura? «Dormivo al primo piano accanto all’ospedale in quella che chiamavamo torre silenziosa, l’altra torre ospitava invece zona ludica, cucina e spazi tecnici. Non ci sono stanze chiuse a chiave. Era un po’ inquietante, ma non ho mai provato senso di solitudine o angoscia. Mancano gli affetti, ma ci sentivamo spesso con video chiamate su whatsapp. Il silenzio? Assordante fuori, nella base no: si lavora, si parla e in estate si arriva ad essere 70 per cui..».
Dall’Antartide non si portano souvenir (“È vietato espressamente”) ma solo il nitido ricordo di una impresa compiuta: «Fondamentale è l’equilibrio mentale, oltre ovviamente alla salute. È una esperienza al limite del limite, molto estrema. Felice di averla vissuta».
Complimenti alla Dottoressa Giuseppina Canestrelli.
E’ solo da invidiare per una simile esperienza, ma è anche da ringraziare per il contributo che dà alla scienza.