di ANDREA RIPOLI
Ciao Ciro. Ti va di tracciare le tappe fondamentali della tua carriera di scrittore? Anzitutto, grazie a te per avermi voluto intervistare. Devo il mio esordio a Massimo Carlotto che, insieme a Francesco Abate, riunì un gruppo di esordienti più o meno sconosciuti in quello che divenne il Collettivo Mama Sabot. Da quella esperienza nacque il romanzo “Perdas De Fogu”, un vero e proprio caso letterario. Un paio d’anni dopo, sempre con le edizioni e/o, facemmo un ulteriore “esperimento”: “Donne a Perdere”. Non un romanzo, non una raccolta di racconti, ma tre romanzi uniti da un unico fil rouge: le donne agite, oggetti. Michele Ledda, Piergiorgio Pulixi e infine Renato Troffa e io. Fu una bella avventura. Sempre con il Collettivo, insieme a Pulixi e Cosmo, scrissi “Padre Nostro” per Rizzoli, un romanzo del 2014 che raccontava il narcotraffico tra la Colombia, Napoli e la Spagna attraverso una chiave epica e tragica, profondamente noir. Forse l’ultima avventura editoriale del collettivo. Seguì un periodo un po’ difficile, in cui mi gettai in uno studio matto e disperatissimo, seguendo corsi, studiando manuali, alla ricerca di un modo più personale di raccontare storie. Ci fu nel mezzo un manoscritto che non ebbe alcuna fortuna editoriale – lo dico per rincuorare gli esordienti, fa parte del gioco vedersi rifiutare la pubblicazione di storie a cui abbiamo lavorato duramente e della cui bontà siamo convinti! – finché, grazie all’impegno del mio agente letterario, Daniele Pinna di Kalama, non approdai in DeA Planeta con “Piove Deserto”, ancora insieme a Renato. Era il 2018. Nel 2020 uscì la raccolta “Giallo Sardo” per PIEMME, raccolta nella quale è contenuto un racconto scritto con Renato e che è il seguito di “Piove Deserto”. Infine, nel 2021, per la prima volta sono arrivato in libreria con una storia tutta mia: “Il vento ci porterà”, un romanzo ambientato tra la Nuoro degli anni trenta e la Guerra Civile Spagnola.
Qual è l’obiettivo che ti poni quando inizi a scrivere qualcosa di nuovo? Autenticità. Ho bisogno di sentire che quello che sto scrivendo sia importante anzitutto per me, e questo prescinde da qualunque altra cosa. Non riesco a scrivere se non sono emotivamente coinvolto nella storia, mi sembrerebbe di prendere in giro il lettore. Questo è l’unico obiettivo che mi do: essere profondamente autentico. Solo così lo saranno il tono e la voce, solo così potrò provare a raccontare qualcosa che credo importante e nella maniera giusta.
Hai degli scrittori ai quali ti ispiri? Tanti. Credo che sia necessario mettersi sulle spalle dei giganti quando si decide di scrivere. Leggo molto e un po’ di tutto. Scrittrici e scrittori che sono stati per me di ispirazione sono Salvatore e Sebastiano Satta, Grazia Deledda, Margaret Atwood, Marguerite Duras, ma anche Marcello Fois (che per me è un maestro!), Elsa Morante, Sergio Atzeni, J.K. Rowling…
Cosa ti piacerebbe trasmettere ai lettori che leggono i tuoi libri? Mi piacerebbe che, chiudendo il romanzo, si ritrovassero confusi. Non credo nella funzione pedagogica della letteratura, e credo che una storia sia tanto migliore quanto più lasci il lettore nel dubbio tra diversi sguardi. Insomma, che lasci la sensazione appagante di aver letto una bella storia, scritta bene, con le parole al posto giusto, ma che non vi sia alcun messaggio da cogliere, nessuna indicazione su dove siano il bene, il male, ciò che è giusto e ciò che invece e sbagliato. Come ebbe modo di dire De Andrè, “Tutto questo per dire che io non ho nessuna verità assoluta in cui credere, che non ho nessuna certezza in tasca e quindi non la posso neanche regalare a nessuno. Va già molto bene se io riesco a regalarvi qualche emozione.”
Ci racconti qual è il metodo che usi per trasformare un’idea in un romanzo? Parto da piccole suggestioni. Una targa commemorativa. Un film, un saggio, un libro che mi hanno colpito. Poi traccio una premessa drammaturgica che devo poter raccontare in meno di due minuti. Se ci sono tutti gli ingredienti, se la persona a cui la racconto – di solito, la prima è la mia compagna, Nadia, che è molto esigente – si dice convinta, allora inizio a “frequentare” i personaggi. Devo averli chiari in testa e nel petto, ci devo aver parlato, devo sapere cosa vogliono, di cosa hanno paura, qual è il loro bisogno profondo e quali demoni si agitano sotto le loro pelli. A quel punto faccio una scaletta, salvo poi tradirla tutte le volte in cui un personaggio mi fa capire che lo sto obbligando a fare qualcosa che forse è drammaturgicamente funzionale, ma non lo è per come ho dato vita ai personaggi. Dopo la prima stesura – che è poco più di carta straccia, la cui unica responsabilità è esistere e non essere buona, figuriamoci perfetta – ne faccio sempre almeno altre tre. Infine rileggo tutto ad alta voce: dove si inceppa la lingua, scrivo e riscrivo, finché non sento che scorre.
Chi vuole iniziare ad affrontare la scrittura in modo serio e metodico, quali esperienze formative dovrebbe affrontare? Non credo ci siano esperienze necessarie. Ce ne sono di utili. Anzitutto: non si può scrivere bene se non si legge molto, anche cose diverse da quelle che si vorrebbero scrivere. Studiare sempre e tanto e continuare a farlo. Nel fiorire di scuole di scrittura più o meno buone, il consiglio è sceglierle guardando chi ci insegna e quali risultati hanno ottenuto i loro iscritti. Possono aiutare, dare un metodo, far capire meglio come ci si approccia in maniera professionale alla scrittura e all’editing e come si inviano i manoscritti ad agenzie e case editrici. Ma, contro il mio interesse, dico che non sono fondamentali. Utili, non indispensabili. Viceversa, lo studio anche da soli è sempre necessario.
Quali sono le caratteristiche caratteriali che uno scrittore, alle prime armi, dovrebbe affinare per affrontare le inevitabili difficoltà? Umiltà, consapevolezza, caparbietà. Umiltà, perché in un mercato che vede 80 mila nuovi titoli pubblicati all’anno, pensare che l’editore sia un fesso che non ha capito la indiscutibile qualità del nostro manoscritto e il nostro evidente talento è il modo peggiore per approcciarsi al mondo dell’editoria. Consapevolezza, perché è bene capire quali sono i nostri punti di forza e quelli di debolezza, e dunque lavorare su entrambi con un buon editor è ciò che dovrebbe desiderare ogni esordiente. Caparbietà, perché non c’è una ricetta per valutare un manoscritto, per cui anche gli editori, gli editor, gli agenti, sbagliano. Insistere – scegliendo bene, benissimo da chi farsi leggere e chi evitare come la peste! – accettare le critiche, riprovare.
Come si sviluppa la propria VOCE PERSONALE? Lavorandoci. La prima stesura di qualunque cosa è merda, sosteneva Hemingway. Ci sono esercizi da fare, soprattutto bisogna scrivere ogni giorno, anche se poco. La costanza è fondamentale in ogni arte: conoscete un pianista che non si eserciti ogni giorno sulle scale? Poi, studiare le voci altrui. Prendete un romanzo che amate e guardate com’è costruito. Che metafore usa? Quali figure retoriche? Ecco, ora provate a riscriverlo voi… con le vostre parole, con le vostre pause. Leggete a voce alta e correggete, fino a che non splenderà come un diamante.