di RAFFAELE NAPPI
Quando nel 2013 è partito dal suo piccolo paesino della Sardegna (Jerzu), Samuele Mura aveva 23 anni. “Ricordo bene quel giorno. Ho pianto. Stavo lasciando la mia terra, la mia famiglia, i miei amici”. Oggi, quasi 10 anni dopo, vive e lavora a Londra: è capo di un team di 10 persone, tutti sardi. “Ma è una simpatica coincidenza, nessun campanilismo”, sorride. Tutto è nato da un lavoro da remoto. “Anni fa lavoravo dalla Sardegna per un’azienda inglese di trasporti – racconta Samuele –. Pochi si occupavano di traslochi internazionali, anche se erano molto richiesti. Così ho utilizzato i soldi risparmiati per aprire un sito, registrare il nome e, grazie ad alcuni vecchi clienti che mi hanno seguito, sono partito con il primo trasloco”. Il logo racconta tutto: la bandiera della regione ma, al posto dei mori, quattro case. Samuele ha lasciato la sua terra con la promessa di tornare almeno 3 volte l’anno. “Gli amici e la famiglia non credevano sarei realmente andato via. Alcuni pensavano sarei tornato subito”, sorride.
Portare avanti una startup e fare imprenditoria nel Regno Unito “non è semplice”. All’inizio l’Inghilterra è “tosta, non ti regala nulla, ed è un po’ come se ti mettesse alla prova”. Spesso, aggiunge Samuele, si fa l’errore di pensare che solo per esser partito tu debba ricevere qualcosa in cambio. Invece è proprio il contrario. “C’è tanta concorrenza e devi guadagnarti ogni singolo passo. Per fortuna, essendo molto meritocratica se ci dai dentro inizi molto presto a vedere i frutti”. La giornata ruota tutta intorno alle sue due attività principali: quella di imprenditore e quella (più recente) di procuratore sportivo. La base è ad Oval, una zona “più o meno centrale”: da lì Samuele si trasferisce in ufficio ad Highbury o va in giro per alcuni meeting. “I team che ho creato nel tempo mi permettono di portare avanti entrambe le cose, senza di loro non sarebbe possibile”.
Nel Regno Unito, secondo l’esperienza di Samuele, un dipendente costa all’azienda “solo il 13% circa del suo stipendio netto”. Un abisso “rispetto a ciò che costa un dipendente ad un’azienda Italiana”. La tassazione per le imprese, poi, “è inferiore ma soprattutto più snella: ricordo ancora con un sorriso tutte le volte in cui, nei primi mesi di vita dell’azienda, ci arrivavano gli assegni con i rimborsi dall’Ufficio governativo responsabile per la riscossione delle imposte. Avevamo pagato più iva o più tasse del dovuto. Il tutto senza aver richiesto nulla”. Certo, l’Inghilterra non è “il paese dei balocchi – aggiunge –, ci sono difetti e svantaggi, ma la tassazione e la burocrazia non sono sicuramente tra questi”. Allo stesso tempo, la formazione italiana è “sicuramente di alto livello”, risponde, ma, specie rispetto all’Uk, si fa ancora “troppa teoria e poca pratica”.
Per Samuele molti italiani decidono di lasciare il Paese per non essere giudicati, limitati da discorsi legati all’età, alla classe sociale, alla meritocrazia. “C’è poi la volontà di non volersi accontentare, di volersi realizzare nel proprio campo”, aggiunge. L’imprenditore sardo pensa spesso a come sarebbe stata la sua vita se non avesse scelto di partire. “A volte fa quasi paura pensarci. Non sarei riuscito a fare tutte le esperienze, ad allacciare i contatti, a far crescere la mia azienda. Non starei lavorando nel mondo del calcio, a stretto contatto con i campioni che da bambino guardavo in tv. Di certo me la sarei cavata, ma molto probabilmente avrei avuto il rimpianto enorme di non averci provato”.
Un’avventura, quella di Traslo, (nome dell’azienda, ndr) iniziata con una semplice intuizione e che oggi organizza traslochi per destinazioni come Australia, Stati Uniti e Cina. Dopo 10 anni di case svuotate, scatoloni riempiti e ricordi trasportati in giro per il mondo, il sogno di Samuele è quello di aprire un ufficio proprio negli Stati Uniti, “magari a New York o Los Angeles”. Il futuro? “Di questi tempi, sembra difficile immaginarci anche solo l’anno prossimo”, sorride. Il personale consiglio ai giovani italiani è quello di considerare bene tutte le scelte: “Vorrei dire loro che la risposta non è sempre partire. Partire non è sempre la cosa giusta. Detto ciò, la cosa peggiore che si possa avere è il rimpianto di non averci provato. Spesso non facciamo qualcosa per il semplice fatto che si ha paura di fallire. Fallire – conclude – in certi casi è la cosa più bella che si possa fare”.
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