di SERGIO PORTAS
Milano sarà pure “on gran Milàn” ma tutte le volte che esagera mi viene voglia di mandarla a quel paese, è vero che essendo la capitale dell’editoria nazionale per coinvolgere in una sola manifestazione dedicata al tema “libro”, seppur l’intera filiera , da editori grandi e piccoli, ai librai e bibliotecari, da autori e traduttori a grafici, illustratori e blogger, il palinsesto delle proposte deve essere ricco e variegato, ma per “Book City 2021”, sarà che oramai siamo alla decima edizione, sono 1400 gli “eventi” (leggi: incontri con autori, editori ecc.) e 260 le sedi. E per ognuno di loro, ovviamente, inutile presentarsi privi di “green-pass” o di preventiva prenotazione. “Robb de matt”, perdonatemi il lombardismo. Sia come sia, nella prestigiosa sede della Triennale di viale Alemagna veniva proposto un: “Il cuore femminile della Sardegna”, Cristina Caboni e Valeria Usala (modera una giornalista di successo come Marta Perego) a presentare le loro ultime fatiche letterarie: rispettivamente “La Ragazza Dei Colori” e “La Rinnegata”. Garzanti che le edita entrambi ha comunque sottolineato (magari inconsciamente) un fenomeno che non si può misconoscere: il numero incredibile di nuove scrittrici sarde che si affacciano nel mondo dell’editoria nazionale. In questo caso la fiaccola della “new entry” è nelle mani di Valeria Usala, che si permette di esordire al suo primo romanzo con una casa così importante come Garzanti, confessando candidamente di non aver mai scritto nulla prima di questo. L’ha spinta l’urgenza di recuperare una storia di famiglia (nella “Rinnegata” si torna a una Sardegna di cento anni fa) sempre sussurrata a mezza voce da zia a nipote. Lei che è nata a Cagliari e vi ha fatto gli studi sino alla laurea in lingue e comunicazioni, è riuscita in modo davvero mirabile a situare il suo racconto in un paesino dell’interno isolano, sembra di sentire l’eco di un coro greco quando fa parlare le malelingue del paese, tutte a spettegolare sulla fortuna che arride a Teresa, una povera trovatella se vogliamo dire la verità fino in fondo, anche se, bisogna ammetterlo: bella è bella, ma troppo sfrontata: povero marito! Che non è mai a casa. E la lascia sola a governare una specie di bettola-taverna, con tre figli piccoli poi. “’Ta bregungia”, che vergogna. L’intercalare dei personaggi lascia presumere una buona conoscenza della lingua sarda: che entra nel testo a passi silenziosi, quasi di soppiatto ma sempre a proposito: “E bai! Tutto mi puoi dire ma testardo no…” oppure: “Tocca, vai a lavarti, tra un po’ mangiamo.” “Eja, babbu” e anche: “Cittidì tui! Senti a me…”, senza bisogno di alcuna traduzione: “ah, ‘ta cosa bella”. Non poteva mancare un: “Ajò, fai presto!”. Comunque come fossero papaveri rossi sardi in mezzo a un rigoglioso campo di grano italiano, a impreziosire un narrare terso e misurato: “…Al contrario dei paesini sulla costa dell’isola, per Lolai l’estate era poco più che un’agonia di afa interminabile; ma con l’autunno la temperatura iniziava a calare insieme alle corone dei girasoli nei campi…” (pag.153). Finisce comunque tutto in tragedia, una storiaccia di sangue coi crismi dell’ineluttabilità, una sorta di femminicidio ante litteram, figurarsi se nella Sardegna del primo novecento una donna sola poteva illudersi di poter scegliere la libertà di essere se stessa a fronte della maggioranza del paese che la voleva sottomessa, come tutte le altre (ma anche Teresa qualche amica ce l’ha). Il libro della Caboni, che pure vive a San Sperate con marito e figli, non poteva essere più diverso, che tratti di colori è quasi un’ovvietà visto che praticamente ogni parete delle case del paese in cui abita è un murale dai colori sgargianti, e che tutta la campagna floridissima che lo circonda lo incorona altrettanto intensamente, in una gara che non finisce mai. Anche in questo, come in tutti i suoi precedenti del resto, personaggio principale è una donna, una ragazza, Stella Marcovaldi, i personaggi al maschile quasi mai pervenuti, giusto lo zio Orlando si fa amare per le sue estrosità (un po’ squinternato lo definisce lei), ma muore subito anche se la sua figura non scompare davvero che alla fine del romanzo. Tocca premettere che Cristina Caboni è quello che si dice un’autrice di best-seller, da che aveva fatto il botto con il suo romanzo d’esordio nel 2014 ( “Il sentiero dei profumi”, sempre con Garzanti) che mi pare sia stato tradotto in qualcosa come 28 lingue, da allora comunque sforna un libro all’anno e continua a venderne centinaia di migliaia di copie. In Italia e all’estero. Come dire che ormai ha un suo pubblico molto ma molto numeroso che la segue abitualmente. A suo dire questa volta era impegnata nella scrittura di un altro libro quando la storia che sorregge questo, insieme a Stella naturalmente, le si è quasi imposta di forza, i protagonisti del libro interrotto probabilmente molto offesi. In estrema sintesi sono un gruppo di piccoli ebrei tedeschi, una settantina, che vengono portati in Italia in un paesino del modenese, Nonantola, nel 1942, ospitati a Villa Emma e “adottati” dall’intero paese, alla faccia delle leggi fasciste del ’38 che facevano degli ebrei una sotto-razza, indegna finanche di frequentare le scuole insieme agli “ariani” italiani. Dopo il voltafaccia dell’8 settembre furono fatti fuggire in Svizzera e riuscirono in seguito a raggiungere Israele e gli Stati Uniti.
I loro parenti scomparsi nell’orrore dei campi di sterminio nazisti. Davvero una storia che merita di non venir dimenticata mai, perché sarà pur vero che non tutti gli italiani sono stati sempre “brava gente”, basta ricordare le efferatezze dell’intervento italiano in Etiopia, ma anche in Grecia e nei Balcani tutti, però stavolta i cittadini di Nonantola, fascisti compresi, si sono comportati davvero come ci si aspetta faccia l’umanità nel suo dispiegarsi sempre.
Qui alla Triennale, un pubblico numeroso a stragrande maggioranza femminile ( ho contato tre maschi in tutto); dialogano insieme le due “ragazze sarde”, Valeria un poco in soggezione dinanzi a un’autrice oramai affermata nel pantheon nazionale della letteratura, verrebbe da scrivere “letteratura rosa” ma davvero sarebbe una diminuzione del lavoro da certosina che la Caboni fa prima di accingersi a mettere giù per iscritto la storia che le si fa palese nella testa: “Questo è stato il libro più difficile tra quelli che ho scritto, sono stata estremamente accorta a non distorcere i fatti “storici”, perché non perdessero di dignità. Perché la gente di Nonantola venisse descritta nel modo giusto. Costretta ad agire in una drammatica situazione, un monito anche per noi per affrontare dignitosamente i tempi difficili che stiamo vivendo. Ci sono figure molto coraggiose, molto spontanee, Letizia la zia di Stella rappresentante di una serie di donne che non sono mai apparse nella Storia. Dopo una lunga parentesi di studio è come se le immagini iniziassero a prendere vita dentro di me, i personaggi mi raccontano le loro vicende, allora scrivo a mano, che anche la mano ha una sua memoria, e mi accorgo che la trama si distende come per magia, come una torta che deve lievitare. Quando l’impasto ti convince, allora scrivo il libro”. Immaginarsi se Valeria a 26 anni si mette a scrivere a mano: “Naturalmente io uso il Pc, e poi sono mancina e per me è sempre stato difficile tenere in mano una penna. Debbo dire che mi sono accinta a questo mio primo impegno con una grande ingenuità. Io che non conosco per nulla la letteratura sarda. Ho scritto come fossi un fiume in piena, riscrivendo mille volte parola per parola, di getto, dopo mi sono accinta a mettere argini”. Per la Caboni “scrivere è disciplina, l’anima va codificata, ci vuole un metodo. I colori del libro mi sono stati suggeriti dal verde delle foglie della mia isola, pensate all’importanza che essi assumono per ognuno di noi, ai colori che amiamo indossare, a quelli delle nostre case, ci influenzano in modo pazzesco. E quanto divergono sui muri e sui tetti anche per zone diverse: il tufo di Cagliari, più chiaro nelle Trexenta, i licheni che ricoprono le case di Nuoro, che per me rappresentano il passato, che ho un padre nuorese. Campidanese è mia madre”. La Perego non può che far loro la domanda fatale: “Quanto conta, quanto agisce su di loro l’essere nate in quella terra strana e unica che si chiama Sardegna”. Valeria racconta della lotta costante interiore che ha dovuto subire ogni volta che ha preso un aereo, il tanto mare che le è scivolato di sotto, quanto tutto ciò abbia contribuito a impostarle la vita, e quanto numerosi siano stati questi aerei presi per cercare scuole che non ci sono nell’isola, per cercare lavori che lì latitano da sempre. L’ultimo però l’ha preso per tornare”. Per Cristina: “I confini non sono mai esistiti, l’isola è stata per me un’attrattiva quasi indefinibile, vivevo in continente coi miei ma a quattro/ cinque anni non voleva altro che tornare in Sardegna, e mi accontentarono, andai a vivere coi nonni. La Sardegna per me è un enorme macigno di storie, di sensazioni, qui si impara ad ascoltare il vento e il mare e le montagne. Come ci si sposta senti la lingua che cambia con una musicalità tutta particolare. Il cibo che cambia: a nord le sebadas e le formagelle del sud. Quando ci sei ti gioca dentro una malia che ti spinge a lasciartela dietro il mare, quando non ci sei non vuoi altro che tornartene a casa”. Questo “cuore femminile di Sardegna” dalle mille sfaccettature batte oggi col libro solare di Cristina Caboni a cui “il giallo dona gioia. E il blu mi rasserena. Grazie ai colori non temo nulla”. Tutto nero quello di Valeria Usala perché è dura la lotta contro il pregiudizio che è forte e saldo, come una radice ancorata della terra. Ma “siamo ogni giorno creatori, custodi e complici di ingiustizie. E con esse, di altrettante meraviglie”.