MAURO TETTI TORNA IN LIBRERIA CON LE “NOSTALGIE DELLA TERRA” PERDUTA IN UNA SARDEGNA POST APOCALITTICA

di NICOLA MUSCAS

I libri di Mauro Tetti non assomigliano a niente. Si affrontano come si affronta una strada provinciale in una notte di foschia, lentamente e con impegno, anche se conosci il paesaggio, perché quello non è più il paesaggio che conosci, i contorni si fanno sfumati, come in un sogno. 

Nostalgie della terra è appunto un romanzo di sogni e di avventure, il secondo dello scrittore sardo di Marrubiu, nelle librerie dal 25 novembre per Italo Svevo edizioni. Un romanzo che accompagna il lettore in una sorta di etnografia onirica della Sardegna, con la complicità di una lingua visionaria e un immaginario fantastico eppure altro, rispetto al fantastico cui la narrativa isolana ci ha abituati.

Ci sono un viaggio per mare e la ricerca di un tesoro misterioso, in un peregrinare tra le isole minori dove ogni isola è una tappa. Ed è proprio per cercare questo tesoro che il protagonista senza nome, dopo aver lasciato il Villaggio Pescatori di Giorgino in cui è nato, si mette in viaggio insieme alla sua strana ciurma.

I tuoi libri hanno sempre uno sguardo laterale sulle cose, questa prospettiva un po’ sghemba è una scelta di libertà? «Non ci ho mai ragionato in questi termini, è semmai un artificio per rendere tutto più vago».
E che valore ha, per te, la vaghezza? «Beh, la vaghezza è tutto quello che fa lavorare l’immaginazione, che consente di ricreare un contesto in cui il lettore ha molto lavoro da fare, che secondo me è l’ingrediente fondamentale per una buona letteratura, o almeno è quello che io ricerco come lettore».

Una Sardegna distopica e post apocalittica, quasi una fuga dalla realtà: anche questi sono elementi che contribuiscono a costruire quel concetto di vaghezza? «Non direi, quella è anzi la parte più realistica. Magari è semplicemente un po’ accentuata ma in fondo nel romanzo parlo di temi molto concreti: le basi militari, i paesi assediati, l’inquinamento. C’è una parte del libro ambientata nell’isola di Malu Entu, che attualmente è un paradiso protetto, in cui i marinai raccolgono dei pezzi di plastica dalle bocche delle tartarughe. Siamo così distanti da un’eventualità di questo tipo?».

Quest’avventura comincia in un luogo che, anche nella realtà, sembra essere ai margini del tempo e dello spazio: Giorgino, Villaggio Pescatori, alle porte di Cagliari. Perché? «Perché ha una grande potenza evocativa, sembra perfetto per un film di Miyazaki. È un luogo a cui sono molto legato, dove ho lavorato per tre anni e che ha una serie di temi sempre molto connessi con la realtà».

Quali? «È un rione isolato da quando hanno tagliato il ponte che lo collegava a Cagliari; il porto canale che gli è stato costruito accanto ha distrutto completamente le correnti marine; e sul futuro del borgo incombe il progetto di un rigassificatore».

Eppure la storia ha una componente onirico-fantastica che è predominante.  «Casomai direi che ci sono tante piccole utopie, rappresentate dai tanti villaggi che resistono, che vivono in libertà, in armonia, sino all’invasione militare…».

La lingua di questo libro è un artificio che dà la sensazione di aver richiesto molta ricerca, è così? «Per me la lingua viene prima di tutto, ma questa volta sono stato molto attento anche alla struttura, alla costruzione della storia. Dal punto di vista linguistico ho cercato di approfondire quel gioco di traduzione delle locuzioni in lingua sarda che ho adoperato per il primo romanzo, e anche di riprodurre la musicalità tipica del sardo campidanese, oltre ovviamente all’utilizzo di un contesto linguistico regionale popolare».

Un artificio che però non si avverte come un peso, probabilmente grazie al fatto che lo hai condotto con una certa ironia. «Esatto, forse perché tutti i modi in cui viene utilizzato questo bilinguismo mi sembrano così manieristi che a un certo punto ho sentito il bisogno di ragionarci in una maniera diversa».

In che modo? «Attraverso appunto un approccio estremamente ironico, facendo un gioco di traduzione in cui spesso il significato non è esattamente quello della parola tradotta».

Due romanzi, due incipit ispirati a Sergio Atzeni. Nel primo giocavi con Passavamo sulla terra leggeri, adesso riprendi uno dei passi più potenti di Bellas mariposas: “Dovevo nascere pesce” diventa “Potevo nascere pesce”.  «Avendo deciso di scrivere un romanzo marinaresco non potevo non alludere all’autore sardo che, forse per primo, si è avvicinato all’enorme tema del mare, e alla frase più importante che ha scritto su questo elemento. O se non altro una delle più forti, sicuramente quella maggiormente fissata nell’immaginario. Atzeni ritorna poi in un momento successivo, forse in maniera anche più intensa». 

Già, nella parte del libro ambientata all’isola di San Pé. Ma non diremo oltre perché il lettore, con Mauro Tetti, ha da lavorare. A lui il compito di distinguere le sagome nella foschia, le ombre nella notte, i grandi scrittori tra le righe di questa storia strana e bella. 

www.tiscali.it

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Un commento

  1. Una passeggiata a colori in mano un libro di compagnia. Buona giornata

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