‘PIETRO E PAOLO’, UN PASSATO ANCESTRALE CHE SEGUITA A CONDIZIONARE CREDENZE E COMPORTAMENTI: IL CAPOLAVORO LETTERARIO DI MARCELLO FOIS

di SERGIO PORTAS

Fortunato chi ancora non avesse letto i tre libri che Marcello Fois ha dedicato alla dinastia dei Chironi di Nùoro, perché ha ancora la possibilità che gli si spalanchi improvvisa la Sardegna dei suoi avi, quella immutabile per rigenerazione di DNA  dei territori e dei cieli stellati, anche se, oramai lo sappiamo, nell’immensità numerica delle repliche, si formano paesaggi che potrebbero farla sembrare alterata nella sua essenza di graniti sgretolati a sabbia dalle eterne mareggiate schiaffeggiate dal maestrale. La Sardegna: “…quel miocardio piantato nel Mediterraneo, trattiene e allontana la percezione del mondo. E’ un altrove che resta irraggiungibile non soltanto per chi arriva da fuori ma persino per i sardi stessi” (Cfr: Giorgio Vasta su “repubblica del 28 marzo 2012). Fois l’avevo incrociato a Milano, ospite di “casa Marras”, appena uscito “Nel tempo di mezzo” per Einaudi, “Stirpe” il primo della trilogia è di due anni prima, e altri due anni ci vorranno perché venga dato alle stampe “Luce perfetta”, perché, diceva Fois: “Per scrivere bene ci vuole del tempo”.  E in effetti se appena ci si lascia trasportare dal ritmo delle parole, dall’ampiezza delle frasi, in questi tre libri c’è un sentore epico inconfondibile. Anche Vasta lo rileva nel suo già citato articolo: “…Fois si fa carico di qualcosa che oggi, nella vita fratta (scissa, ndr.), ha le proporzioni della sfida: dare forma a un “epos”, prendere l’umano e cantarlo, conferire esistenza agli individui e alla loro storia attraverso le parole. Non per gioco o per caso ma per fare delle proprie percezioni, qualcosa di buono…costruisce così un ponte di corda che chiamiamo letteratura, una struttura salda e oscillante, integra e vibratile. Ha in sé una selvatichezza animale e una misura vitruviana: la qualità sostanziale che appartiene a chi sa pensare il mondo in forma di frasi, a chi si prende cura del vuoto e lo trasforma in trama”. Vincenzo che ricompare a Nùoro ormai grande, figlio di un padre mai conosciuto, che ha perso la vita in una delle innumerevoli “avanzate” che toccavano ai fanti sassarini dalle trincee del Carso, la mamma una giovane contadina friulana, è il fantasma perfetto, anche nelle fattezze del viso, della persona, per dar vigore al sangue dei Chironi. Un po’ l’Ulisse che rientra nell’isola che non conosce, e vi trova un nonno e una zia che non può che innamorarsi del nipote (si sente qui l’eco del Giacinto daleddiano che arriva a Galte dal continente, e zia Noemi se ne invaghisce, Grazia Deledda ebbe il privilegio di veder pubblicato “Canne al vento” nel 1913, dall’editore Treves di Milano). “Non sono un nostalgico, dice Fois, mi piace il tempo in cui vivo. Mi spiace invece, e moltissimo, la perdita della sobrietà. Quel tempo passato in cui povero e ricco camminavano insieme e non si distinguevano.  Per la storia dei Chironi ho avuto un approccio elementare, rendere straordinario l’ordinario. Un classico, come ovvio ha il dovere di riportare una contabilità di morte: tre guerre, Libia, due mondiali e la “Spagnola”. Quella che farà capire a “quelli del capo di sopra” e a “quelli del capo di sotto” di essere più che dei cugini di cui si è sentito parlare è naturalmente la prima: “Da quella roccia in mezzo al mare, la guerra era stata come ascoltare dei vicini che litigano, che rompono i piatti, come origliare mentre un padre di famiglia allunga le mani sul figlio maggiore che non ascolta, come appiattire l’orecchio alla parete mentre una moglie insulta un marito infedele, o beone, o spendaccione. Così era stata questa guerra, che nemmeno chiamavano guerra. Conflitto lo chiamavano perché la Guerra, sa Gherra, era stata l’altra, la ’15-18. Quella sì…(pag.8, Nel tempo di mezzo). E su quella cesura di civiltà che rimescolò per la prima volta i giovani sardi obbligandoli a percorrere strade interne all’isola di cui prima non avevano sentore (quando mai mio nonno Pasqualino sarebbe uscito da Guspini per andare addirittura in continente!), sino a specchiarsi l’un l’altro nei detti e modi di vita, a rinserrarsi in un sentire comune che aiutava a sopravvivere nelle trincee, Fois ha scritto il suo ennesimo romanzo: “Pietro e Paolo”, sempre con Einaudi. Lo leggo facendomi forte della critica che ne ha fatto Mario Barenghi che insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano Bicocca, uno che ha curato i “Saggi di Calvino” per i “Meridiani” Mondadori, suo anche “Perché crediamo a Primo Levi”, Einaudi 2013. Mi conforta quando esordisce scrivendo che Marcello Fois va senz’altro annoverato tra i maggiori narratori italiani di oggi. “Pietro e Paolo, continua, conferma da un lato uno dei tratti distintivi della tradizione narrativa isolana, cioè il riferimento a un passato ancestrale che anche in epoca moderna seguita a condizionare credenze e comportamenti (in Sardegna la letteratura d’invenzione ha quasi sempre una filigrana etnografica) dall’altro un “leimotiv” che percorre varie sue opere, la coppia maschile dei protagonisti stretti da un legame ambiguo, fatto di amicizia e rivalità, di solidarietà e prevaricazione. Siamo all’epoca della Grande Guerra. Pietro e Paolo sono cresciuti insieme, ma appartengono a classi sociali diverse. Paolo è il rampollo della ricca famiglia dei Mannoni; Pietro Carta è figlio di un servo”. Quale espediente narrativo più usuale di questo? Viste le cronache di questi giorni veramente imperdibile per chi ancora non l’avesse letto è “Il cacciatore di aquiloni” dell’afgano Kaled Hosseini, in cui due bimbi, il ricco Pashtun e il figlio di un servo Hazara passano insieme la giovinezza in una Kabul ancora per poco scevra di Talebani. Concede giustamente anche Fois a pag.18 del libro: “Pietro e Paolo erano dello stesso anno: 1899. A poco meno di un mese di distanza l’uno dell’altro, eccoli nel mondo: bocche da sfamare, cose da insegnare, domande a cui rispondere…Nati diversamente, certo, come succede nelle storie dei libri: il principe e il povero insomma. La qual cosa ci ammonisce dal ritenere la letteratura, e le storie che racconta, estranee alla vita e alle vicende che ci riguardano direttamente”. Paolo passava per essere di complessione cagionevole. “Pietro era forte come un cucciolo di muflone. Aveva le piante dei piedi coriacee, poteva arrampicarsi sulle rocce e attraversare campi torridi, disseminati di rovi, senza nemmeno ferirsi. Quelle estati secche assordavano di cicale sino allo stordimento, e poi di grilli, e poi di rospi nelle pozze. I graniti rosa, gelatine di porco, brillavano sotto i raggi. L’aria calda, alito di bue, era impregnata d’erbe putride e di foglie fermentate…” (pag.28). Ma quando, dopo Caporetto, anche la classe dell’89 fu chiamata da Diaz al salvamento della Patria anche ai nostri due eroi toccò di partire, un po’ come nei classici scudiero e cavaliere. Per andare lontanissimi, al corno grande della forca (ma in sardo suona meglio: “su corru ‘e sa frucca”). “Dovettero imparare dunque che viaggiare è sempre mutare lo sguardo con ostinazione e, con ostinazione, superare l’ansia di quel mutamento. Perché i semplici nomi-alberi, monti, colline, ruscelli, nuvole, cielo, mare, non bastavano a definire quasi nulla di ciò che sfuggiva davanti ai loro occhi. Perché tutto ciò che sapevano, o credevano di sapere, all’improvviso appariva talmente ridotto da far risultare immensa, annichilente, paurosa, quella multiformità” (pag.60).

Non è un libro di molte pagine, non arriva a 150, ma ha una scansione temporale molto intensa, procedente a senso inverso, con un pathos crescente che ricorda vagamente “Le braci” dell’ungherese Sàndor Màrai. Pietro, dato per disertore, tornato ricco al paese (il Conte di Montecristo?) ha un appuntamento decisivo con Paolo, che ha lasciato l’uso delle gambe nell’ultimo assalto a cui ha partecipato, la Spagnola si è portata via i padri dei due. Servo e padrone, senza distinzione come usa la morte. Mi piace finire con Barenghi che ricorda un’intervista di Fois legata alla pubblicazione del libro sulla figura del leggendario bandito Samuele Stochino, detto la Tigre dell’Ogliastra (Memoria del vuoto, Einaudi 2006) quando ha parlato della singolare capacità dei sardi di essere “onestissimi e delinquenti insieme, esaltati e depressi, tristi e felici”. Faccio mia questa sua chiusura quando rileva che nell’italiano impeccabile della scrittura di Fois trovano posto sporadici prelievi lessicali senza traduzione, dice lui che non saprebbe definirli se nuoresi o pan-sardi. “Fra questi, una menzione speciale spetta all’aggettivo (foneticamente italianizzato) barroso: che, se ho ben capito, sta a indicare una particolare mistura di arroganza e ostinazione, una protervia sfrontata e insistente, suscettibile di diventare carattere (Pietro è un po’ barrosetto,ndr.). Ecco un buon esempio di termine che potrebbe essere utilmente preso in prestito dalla lingua comune (in Sardegna già lo facciamo) e accolto nei vocabolari: anche perché non è che manchino, sul continente e altrove, persone cui s’addica tale attributo. Da questo punto di vista, tutto il mondo è Nùoro”. Un appunto mi sento di rivolgerlo a Marcello, mi fa morire troppo presto Lucia, l’adolescente di cui (forse) Pietro e Paolo sono ambedue innamorati con la scusa che “Il dio dei racconti, quello che sa ogni cosa prima che diventi voce o avvenga sul foglio, avrebbe potuto dichiarare il perché e percome. Avrebbe potuto cioè rendere inutile qualunque resoconto e, di conseguenza, se stesso. Da tempi immemorabili gli dèi omettono i particolari salienti per difendere il proprio significato. Spargendo solo briciole di senso. Sicché agli umani, auditori, lettori, non resta che raccoglierle (pag.129). Non mi sembra una buona ragione.

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