di ROBERTA CARBONI
“Che le tue ceneri, Pomptilla, fecondate dalla rugiada si trasformino in gigli ed in verde fogliame dove sbocceranno la rosa, il profumato zafferano e il semprevivo amaranto. Possa tu ai nostri occhi divenire il fiore della bianca primavera, affinché come Narciso e Giacinto, questo motivo di lacrime eterne, un fiore trasmetta il tuo nome alle venture generazioni.”
La Grotta della vipera – così chiamata a causa della presenza di due vipere affrontate scolpite sull’architrave della facciata – è una tra le poche testimonianze della necropoli di età romana, costituita da tombe monumentali scavate e variamente modellate nella roccia. Si tratta del mausoleo risalente alla fine del I-inizi II secolo d.C. che ospita varie sepolture, tra cui quelle dei due coniugi Atilia Pomptilla e Lucio Cassio Filippo.
Eppure non molto tempo fa questo luogo così affascinante e ricco di storia stava per essere distrutto irrimediabilmente, se non fosse stato per l’intervento del generale Alberto La Marmora, che così ne parla nel suo diario di viaggio: “Senza vantarmi, posso dire che io sono stato quello che nel 1822 ha impedito la sua totale distruzione dagli impresari della strada Reale”
Si deve proprio al generale piemontese, infatti, la sopravvivenza del pregevole monumento, quando, riconosciutane l’importanza storico-artistica, si oppose strenuamente per evitarne la distruzione. Nel 1822, durante i lavori di spianamento per la costruzione della Cagliari- Sassari nel viale Sant’Avendrace, il generale interruppe gli operai che avevano già piazzato le mine nei pressi della grotta e poco prima avevano già devastato la tomba attigua di T. Vinius Beryllus, di cui oggi possiamo ammirare soltanto i resti delle nicchie che un tempo dovevano rappresentare il fondo della camera funeraria.
Per preservare questi due siti, Alberto La Marmora decise di installare un cancello per impedire incursioni e ulteriori devastazioni dell’area già martoriata e mutilata, sottraendola alla selvaggia urbanizzazione dell’Ottocento. Da quel momento la tomba cominciò ad essere studiata e nel 1922 entrò nella lista degli edifici monumentali di Cagliari redatta del Ministero della Pubblica istruzione.
Ma la Grotta della vipera fu oggetto di svariati abusi anche in passato, quando fu deturpata dalle continue estrazioni di calcare perpetrate fino all’Ottocento. A partire dal XV secolo era conosciuta con vari appellativi, tra cui “Spelonca del Re”, “Crypta serpentum”, “Cova de la serp”, “Cresia de is gentilis”, “Grutta de sa pibera”. Nel 1536, inoltre, è attestato che venisse sfruttata per scopi agricoli.
Ma chi era Atilia Pomptilla? Nata a Roma da una famiglia gentilizia, Atilia Pomptilla seguì il marito Lucio Cassio Filippo nel suo esilio in Sardegna. L’imperatore Nerone, infatti, aveva costretto numerosi nemici politici dell’urbe – tra cui Lucio Cassio Longino, padre del marito di Pomtilla – all’allontanamento forzato.
L’arrivo in Sardegna non fu facile per gli esuli, costretti a lasciare molti dei loro affetti e rifarsi una vita in una terra lontana e sconosciuta. Poco tempo dopo la sua permanenza in Sardegna, Lucio Cassio Filippo contrasse la malaria in una forma così aggressiva da far temere per la sua vita. Coraggiosa e fiduciosa nella benevolenza degli Dei, Pomptila vegliò il suo amato giorno e notte, rifiutando il cibo e chiedendo che questi ultimi salvassero il marito e prendessero in cambio la sua vita.
Ma la sorte è beffarda e crudele, a volte, al punto che, mentre Filippo sembrava gradualmente riprendersi e migliorare, la povera Pomptilla si spegneva lentamente, provata dalla ferocia di un morbo che non faceva sconti alla bontà.
Così, tra le lacrime del suo adorato sposo, la donna morì.
Devastato dal vuoto lasciato dalla perdita della sua amata compagna di vita, Filippo le fece costruire un grande mausoleo che, ancora oggi, nonostante il continuo e scriteriato intervento dell’uomo, rappresenta un imponente monumento funebre alla memoria imperitura dell’amore.
Sebbene fiancheggiata e quasi schiacciata dall’ingombrante presenza dei palazzi di viale Sant’Avendrace, l’imponente entrata monumentale riproduce quella di un tempio in antis, ovvero una particolare tipologia di tempio “ad ante” caratterizzate dai muri laterali prolungati fino alla facciata, creando un vestibolo aperto detto pronao, che formano così due pilastri di sostegno laterali con al centro due colonne.
Purtroppo nel tempo le ante del pronao, le colonne e i pilastri sono andati perduti, e sopravvive solo un capitello.
Nell’architrave è incisa una scritta ancora parzialmente leggibile che riporta la dedica e il nome della defunta: “Monumento edificato e dedicato alla sacra memoria/della benedetta Atilia Pomptilla, figlia di Lucius/Il marito (pose) a proprie spese“.
Il significato dei serpenti presenti nell’architrave non è tutt’ora chiaro e lascia ancora aperte tre diverse interpretazioni: simbolo della reciproca fedeltà coniugale dei due sposi, raffigurazione delle divinità Iside e Osiride oppure un riferimento al mito di Cadmo e Armonia.
La parte interna dell’ipogeo è costituito da due camere funerarie da cui si accede mediante due cunicoli e, nella parte alta del pronao, è ancora visibile un colombario per le urne. Le iscrizioni presenti nella tomba sono la celebrazione di Atilia come donna, sposa e madre e dello struggente dolore del marito per la sua perdita. Vi sono 16 epigrammi metrici, di cui 9 in latino e 7 in greco, che narrano poeticamente la storia e il sentimento d’amore che legava Atilia e Filippo e persiste appassionato anche dopo la loro morte.
Secondo una leggenda, Filippo, devastato dal dolore, bandì una gara poetica per componimenti in greco e latino al fine di adornare la tomba della sua diletta con dolcissime poesie per celebrare e commemorare il sacrificio dalla moglie. Un’altra versione afferma, invece, che l’autore di queste liriche poetiche fosse lo stesso Filippo.
La tomba fu aperta al pubblico nel 1922, attraendo da subito numerosi visitatori incuriositi dalle meraviglie che questo impenetrabile mausoleo custodiva e che negli anni è stato oggetto di popolari leggende.
Tra queste, una tra le più note, è quella del fantasma di Pomptilla che comparirebbe spesso nella zona circostante la grotta; un’altra leggenda, invece, afferma che sotto il tempio si nasconderebbe un inestimabile tesoro raggiungibile tramite i cunicoli che si snodano nel sottosuolo. A protezione del tesoro ci sarebbe anche la tradizionale “musca Macedda”, la mosca macellaia dalla puntura mortale che si troverebbe a protezione di numerosi tesori.
Qualunque sia la verità, rimane il fatto che questo bellissimo sepolcro custodisce una parte importante della storia di Cagliari, destinata a perdersi senza l’interesse di chiunque abbia a cuore la sua valorizzazione e la sua riscoperta.
All’inizio conoscevo la grotta della vipera solo dalla bella rivista dello stesso nome (che ho letto dal primo numero (primavera 1975) fino all’ultimo (inverno ’93) prima del passaggio alla CUEC. Dal bello resoconto qui sopra si potrebbe dire che la Sardegna possiede il suo proprio Taj Mahal (mausoleo alla consorte amata)… a scala dell’isola !
Claude SCHMITT