di PAOLO PULINA
L’articolo seguente è stato preannunciato dall’autore in un contributo sull’opera di Carolina Invernizio pubblicato in questo sito in data 22 luglio 2021: si veda al link
Scrive Angela Bianchini, nel volume “La luce a gas e il feuilleton: due invenzioni dell’Ottocento” (Napoli, Liguori, 1988), nell’ampio capitolo dedicato a Carolina Invernizio: «Ognuno dei personaggi dei romanzi dell’Invernizio, in generale femminile, è qualificato in modo definitivo per provenienza geografica o di classe o di professione o di appartenenza politica, e le qualifiche, a volte attribuite a defunti, s’incrociano in modo così vertiginoso da frugare (almeno dare l’illusione di frugare) in ogni angolo dell’Italia unita, da “Rina o l’Angelo delle Alpi” del 1877 a “L’orfana del ghetto” […] a “L’impiccato delle Cascine”, fino a “L’orfana di Trieste”. Una indagine di ordine catastale ce la direbbe lunga su quali classi sociali costituissero i modelli su cui si uniformava la piccola e media borghesia postunitaria e quali altre ne costituissero gli spauracchi e i tabù. “Il figlio dell’anarchico” è del 1901, dopo l’attentato di Bresci e la morte di Umberto I; “Odio di araba” del 1912 e “Il trionfo dell’araba” del 1915 vanno visti in rapporto alla guerra di Libia. “L’orfana di Trieste” è legata alla Prima Guerra Mondiale».
Da queste notazioni scaturisce una preliminare considerazione generale: la tanto vituperata Carolina Invernizio si documentava non solo sulla cronaca dei delitti ma anche sulla storia contemporanea.
Vediamo un’altra interessante osservazione di Angela Bianchini: «Si ha l’impressione che un minimo di potere descrittivo […] l’Invernizio lo possedesse, ma non si credesse in diritto di adoperarlo, incalzata com’era dalla necessità o meglio dalla voglia di “colpire” il lettore con il prologo. Fatto sta che i tocchi realistici, minimamente autentici, stanno, in genere, nei suoi romanzi o all’’inizio oppure, nascosti, qua e là, nelle pieghe della storia, quasi dimenticati. Per esempio la descrizione della stazione di Torino, all’inizio de L’albergo del delitto, è, sia pure nella sua brevità, testimonianza interessante del gusto di un’epoca, in cui le stazioni erano, a differenza di oggi, luoghi di ritrovo mondano».
Leggiamo il romanzo dell’Invernizio intitolato “Il treno della morte” (del 1905), riproposto nel 2020, come noir torinese, dalla casa editrice Yume di Torino. Nel 1989 il romanzo era stato riedito per la collana Grande Universale dell’editrice milanese Mursia, con una bella prefazione del curatore Roberto Fedi (artefice anche della ripubblicazione, nella stessa collana, di altri quattro best-seller dell’Invernizio, ciascuno corredato di un’ampia e accurata presentazione: “La vendetta d’una pazza”, “Il bacio d’una morta”, “Lara l’avventuriera, La via del peccato”);
Ebbene, la lettura de “Il treno della morte” ci dà una conferma della validità delle osservazioni di Angela Bianchini: «L’angolo dell’Italia unita frugato» questa volta è addirittura la Sardegna; «i tocchi realistici, minimamente autentici, sono nascosti nelle pieghe della storia» (intesa naturalmente come intreccio narrativo).
A proposito del plot, Roberto Fedi, nell’introduzione alla citata edizione da lui curata, prova a riassumere la complessa trama: «La sedotta e abbandonata Raimonda, dal fiero e vendicativo animo sardo, ordisce un diabolico piano per rovinare il suo seduttore Valerio, ma alla fine si redimerà nell’amore fino al sacrificio; la sorella Isabella, altrettanto sarda ma più accomodante (ed anche biondissima così come Raimonda era più bruna della Lupa verghiana: l’Invernizio trascura facilmente la genetica in favore delle simbologie letterarie e del gioco delle contrapposizioni), prima fa la mantenuta di lusso a Roma presso il suo cinico seduttore, poi si riscatta e sposa il ricchissimo marchese Briardo, generoso e gentile ma ahimè minato da una tradizione familiare per la quale, oltre ai quarti di nobiltà, si trasmettevano anche buone porzioni di pazzia. In mezzo, e anch’essi non monolitici nelle loro virtù o miserie, vecchi laidi ma pentiti “in articulo mortis”, figli onestissimi e proprio per questo colpevolmente rigidi oppure svagati e liliali e quindi non indenni da biasimo; e ancora vecchie aristocratiche, madri infelici e fedeli, servitori a tutta prova, fratelli pronti al delitto d’onore, padri disperati e suicidi. Un universo».
Un intreccio quindi molto complicato che difficilmente può essere riassunto. Eppure – aggiunge Fedi – «anche se in questo romanzo si legge di due sorelle perdute e non riconosciute, di due fratelli che si sono scambiati senza saperlo la donna, di una bambina creduta figlia legittima di una zia e in realtà figlia naturale di quello che tutti ritengono lo zio, di un padre snaturato, di un marchese impazzito di gelosia, e via dicendo e che tutto si svolge fra la Sardegna, Torino e la Costa Azzurra (con una puntata addirittura in Russia), gli intrecci di Carolina sono esattamente scanditi sulla pagina, sì che risulta facile la memorizzazione ed il lettore non si trova mai nella scomoda situazione di perdere il filo. In questo, l’autrice è davvero maestra: nell’impostare una trama, nel condurla in porto fra incredibili incroci e colpi di scena, e nell’essere di una puntualità narrativa che ha pochi rivali».
Ma a me qui interessa mettere in evidenza gli elementi descrittivi che riguardano la Sardegna.
«Raimonda si rivedeva fanciulla dodicenne, in una modesta casetta laggiù nella sua Sardegna, in un luogo deserto, a confine della foresta, sulla linea della ferrovia, che solo da pochi mesi era stata attivata. Suo padre, rimasto vedovo con tre figli, aveva ottenuto il posto di cantoniere. Non si poteva immaginare un luogo più isolato di quello, più diviso dai viventi. Per le provviste bisognava recarsi ad un piccolo paese, fra strade disagevoli ed alla distanza di circa sei chilometri: l’unico svago era il passaggio dei treni, che però non si succedevano che due volte al giorno ed una la notte. C’era da morire di tedio in quella solitudine, se alcuni ingegneri e i loro addetti non si fossero trattenuti qualche volta nella casetta, perché lì poco distante tagliavano una galleria che avrebbe accorciata la strada. Ciò portava un po’ di movimento, di distrazione; ma fu pur anche la causa delle sventure della famiglia del cantoniere. La figliuola maggiore, Isabella, un tipo maraviglioso di bionda, specialità rara in quei luoghi, fu sedotta da un addetto alla ferrovia, e un bel giorno prese il volo con lui. La giovane non tornò più, ma il seduttore, che era stato visto in paese, fu trovato qualche tempo dopo cadavere nel bosco, con due palle di piombo nel petto. Si sospettò che il cantoniere e suo figlio Salvatore, un giovane sui vent’anni, di carattere chiuso, che adorava le sue sorelle, fossero stati gli uccisori; ma non essendovi prove contro di loro, vennero lasciati tranquilli e la cosa fu posta in tacere».
Della grande isola mediterranea in questo romanzo abbiamo la geografia («Il bel mare di Sardegna»), l’antropologia («La fierezza nativa dei sardi» e anche, come si è appena visto qui sopra, l’inesorabile “codice della vendetta”), la linguistica («Il dolce dialetto sardo»).
Dove è la Storia nella storia di questo romanzo? È – come ben compreso da Angela Bianchini – nascosta in due righe: «in un luogo deserto, a confine della foresta, sulla linea della ferrovia, che solo da pochi mesi era stata attivata».
Quando scrive “Il treno della morte”(edito, come si è detto, nel 1905) e decide di partire da questa “location” l’Invernizio sicuramente sapeva dello sviluppo delle ferrovie in Sardegna, operato dalla Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde: costituita a Londra il 2 giugno del 1863, era una società che deteneva la concessione governativa per la costruzione e l’esercizio delle linee nell’isola.
Come scrive Roberto Fedi, «è probabile che lo spunto per la trama romanzesca, come spesso avveniva nei romanzi dell’Invernizio, sia stato offerto da un caso di cronaca nera – anche se poi il delitto (o il suicidio? o la morte naturale?) sul treno a cui il titolo allude è del tutto secondario nella trama».
Restano però due certezze.
1) L’Invernizio i titoli li sapeva fare molto bene. In una famosa intervista rilasciata nel 1904 l’Invernizio svelò i segreti del suo inesausto lavoro nella casalinga “cucina” redazionale: «Or eccovi come preparo e scrivo il mio romanzo. Prima di tutto cerco il “titolo”, perché, per quanto si dica, il “titolo” esercita una specie di suggestione sui lettori, dai più semplici ai più eletti, e un bel “titolo” è la metà di un successo popolare».
2) L’Invernizio sapeva ben creare e tenere viva la suspense, anche dopo il finale. Non a caso, Giovanna Cannì ed Elisa Merlo, in “Atlante delle scrittrici piemontesi dell’Ottocento e del Novecento” (2007), sottolineano il fatto che «recentemente, l’autrice è stata considerata anche una “protogiallista”, per opere come “Il treno della morte”, “Il delitto della contessa” e “Il bacio d’una morta”».
E infatti il regista cinematografico Giovanni Enrico Vidali, specializzato nella trasposizione di feuilleton, saccheggiò abbondantemente il repertorio inverniziano nel 1916 “La sepolta viva”; nel 1917 “Rina, l’angelo delle Alpi”, “Piccoli martiri”, “Il bacio d’una morta”, “L’orfana del ghetto”; nel 1918, “Il treno della morte”.