di SERGIO PORTAS
Quando noi figli combinavamo una qualche marachella di troppo a mamma scappava un: “Ancu ti curra su buginu” (lei lo pronunciava con la lettera minuscola) e chissà come sarebbe stata sorpresa nell’apprendere che questo “Bongino” che avrebbe dovuto rincorrerci (e terrorizzarci) faceva di nome Gian Battista Lorenzo, e che nel lontanissimo 1750 era Ministro di Stato (capo di governo) di Carlo Emanuele terzo di Savoia. Questi giusto trent’anni prima aveva avuto in sorte di ereditarsi la Sardegna ( in realtà Vittorio Amedeo II la scambiò con la Sicilia, non un grande affare a prima vista), essendosi nel frattempo sfasciato l’impero spagnolo, quello dove il sole mai tramontava, cosicché il “regnum Sardiniae” mise in capo ai Savoia la corona regale e si svegliò da un sonno in cui Aragonesi prima ( l’Occidroxiu di SanLuri è del 1409) e Spagnoli poi (Fedinando d’Aragona sposa Isabella di Castiglia nel 1469, diventando con lei “cattolicissimo re”) l’avevano relegato per tre secoli o giù di lì. Per la gente comune cambiò poco, i “nobili”, i prinzipales, continuarono a fare il bello e cattivo tempo sulle terre che governavano, la chiesa cattolica a pretendere che i fedeli pagassero le decime di sempre, contadini e pastori sardi a rivoltarsi nella miseria più nera, a dipendere dalle annate dei raccolti, quasi nessuno che sapesse leggere e scrivere, relegati a vivere nei “feudi” dove erano nati, in condizioni di estremo degrado, del resto nell’isola non esistevano strade che unissero paesi a paesi. Le “grandi città” (Cagliari faceva un quindicimila abitanti) avevano, beate loro, una tassazione agevolata e, come fonte di guadagno principale, lucravano sui prezzi delle derrate alimentari dei contadini (e dei pastori). Avendo in più il privilegio di ospitare i dignitari di corte e le milizie, tutta gente abituata a mangiare a quattro palmenti. A parte qualche notaio, qualche barone, qualche avvocato o prete che sapevano di spagnolo e di latino, tutti parlavano il sardo, con le specifiche si sempre: gallurese, campidanese, catalano di Alghero. Insomma la lingua con cui si disegna il mondo che noi crediamo di possedere e che in realtà ci possiede, rimaneva quella di sempre. Nel suo “Storia della Sardegna sabauda, 1720-1847” Girolamo Sotgiu racconta con dovizia di citazioni critiche, lo sconquasso che seguì negli anni in cui i Savoia si misero di buzzo buono a cambiare questo stato di cose: a fare uscire la Sardegna dal regime feudale (pagando profumatamente i baroni nel riscatto dei feudi con cartelle di debito pubblico, con le tasse dei sardi, intesi come popolo), facendo leggi che “chiudevano le tanche” per far decollare una agricoltura più intensiva e scatenando l’ira dei pastori che vedevano limitarsi le terre che avevano pascolato per secoli (anche i comuni di Guspini e Arbus entrarono in subbuglio, con loro molti altri del Capo di sopra), facendo leggi che imponevano alla gente di “parlare in italiano”, figurarsi, insomma quel Bongino che mamma usava a mò di demonio si fissò nel modo di dire dei sardi come marchio d’infamia perché fu complice di un tentativo di estirpare i sardi dalla beata sardità dei secoli spagnoli. E farli finalmente entrare nella “modernità”. Nel 1847, complici i baroni di sempre che si erano arricchiti come mai, complice la Chiesa di sempre che mai nulla avrebbe voluto cambiare, la “classe dirigente “sarda supplicò il re di trattare l’isola come fosse una qualunque regione del suo regno, rinunciò ai suoi “stamenti”, i suoi parlamenti, le sue istituzioni secolari, e chiese una “fusione perfetta”, i sardi finalmente come i cittadini di Saluzzo, di Alessandria, di Novara. Da allora la storia della Sardegna e quella d’Italia si fondano e l’isola entrò a vele spiegate in quel “Sud” in cui fu deposta, e di cui fa parte con tutti i diritti del caso, divenne cioè una parte di quella “palla al piede” che non consente alla Nazione di diventare come la Svizzera, dopo il Risorgimento e l’unità finalmente conquistate. A tutto finire anche una guerra mondiale, quella “grande” della “Brigata tattarina”. Questo sbiancamento degli italiani del sud, i sardi si sa tendono al nero del cinghiale, dura tutt’ora e, complice vent’anni di buon fascismo che si era inventato di agire con l’Italia tutta come la Roma imperiale d’altri tempi imponendo costumi e lingua “nazionale” a destra e a manca, ha finito per incidere nella resistenza dei sardi nel mantenere la loro lingua di sempre, lasciandoli inebetiti e sgomenti davanti alla modernità televisiva, ai social della rete, a chiedersi perché debbano pagare le stesse tasse di un milanese per avere strade, ospedali, treni, servizi infinitamente inferiori. In cambio servitù militari e i poligoni di tiro migliori d’Europa, le scorie nucleari forse no perché c’è il mare da superare, e se i giapponesi non sono riusciti a ripararsi da Fukushima, il rischio che gli italiani rendano il Tirreno radioattivo alle generazioni future non tende a zero, mentre le tonnellate d’acqua radioattiva del sito nucleare nipponico che ancora serve a raffreddare il nucleo d’uranio della centrale, finiranno inevitabilmente nel loro mare, per decine e decine di anni, che tutto si diluisca e si scordi. Finanaco i pesci del posto. Ma a noi sardi come ci vedono le genti del continente? Carla Panico sul “Manifesto” del 3 aprile scorso firma una articolo a titolo: “Le trappole dell’immaginario e degli stereotipi” che inizia così: “Ciò che sulla Sardegna è in parte presente nell’immaginario collettivo si potrebbe sintetizzare parafrasando un vecchio adagio di crociana memoria: se Napoli-o, per sineddoche, il Meridione-era un paradiso abitato da diavoli, l’isola sarebbe forse un paradiso abitato da banditi…il popolo sardo, rinchiuso in stereotipi che lo vogliono antiquato, duro e tacito, quando non esplicitamente ostile, presenza quasi silenziosa sullo sfondo di una rappresentazione che vede modernità e banditismo come poli opposti. Tuttavia i tempi sono maturi in Sardegna per guardarsi non più con gli occhi dell’altro, ma con i propri, si legge nelle prime pagine di “Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna”, edito da Maltemi e a cura di Sebastiano Ghisu e Alessandro Mongili”. Dentro una serie di saggi scritti da filosofi, sociologhi, storici, ricercatori universitari che si interrogano su questa assenza di filosofia che c’è evidentemente nel pensiero sardo, quasi che il soggetto pensante manchi dell’elemento indispensabile per filosofare, per criticare: manchi della libertà, interna alla Nazione, e sia preda di una visione comunitaria che lo fa esistere solo in presenza di un “humus” più inventato che reale, la testa volta a un passato di una età d’oro (quella nuragica delle mille e mille torri di pietra) in cui la sua identità non era messa in dubbio. Prima cioè che arrivassero punici e cartaginesi e romani, e questi ultimi sì che lasciarono in eredità la loro lingua, un processo di disgregazione dell’identità avvenuto sotto il segno della subalternità, una specie di espropriazione dell’anima che l’antropologia definisce come deculturazione. Che si manifesta anche in una quasi assoluta ignoranza della loro storia da parte dei sardi a cui è stata sin qui negata una storiografia degna di questo nome. Scrive Omar Onnis: “…E’ come se il nostro senso comune si fosse distaccato dai fatti, dai processi, dai rapporti sociali e politici reali e avesse interiorizzato una collocazione nel tempo e nello spazio fittizia, tributaria di un immaginario e di un armamentario concettuale alieni “(pag.41). Cristiano Sabino scrive di un “Gramsci sardista popolare”: “I signori torinesi, la classe borghese di Torino che nel 1898 ha seminato di lutti e rovine l’isola di Sardegna facendo perseguitare, dai carabinieri e dai soldati, come cinghiali, per monti e per valli, i contadini e i pastori sardi affamati; i signori torinesi, la classe borghese di Torino, che ha ridotto allo squallore la Sardegna, privandola dei suoi traffici con la Francia…che si è arricchita distruggendo le foreste sarde…” (pag.53). Che gran polemico e giornalista questo nostro Antonio, non le mandava certo a dire. Giada Bonu “sarda ma trapiantata in Continente” ce l’ha con quelli: “che paradiso la Sardegna. Ci vado sempre/ci sono stato/ ci vorrei andare d’estate”. Seguito subito da: “io li amo i sardi.” E infine, per i più audaci: “ e poi le sarde sono bellissime”. Firma un saggio: “Le parole per dirlo. Uno sguardo femminista e de-coloniale sulla Sardegna”. Davvero molto puntuale e intriso di amara ironia. I problemi legati all’insularità sono indagati da Gianpaolo Cherchi, dottore in ricerca in filosofia, vale la pena di premettere che il Nelson, inteso qui come ammiraglio di sua maestà britannica, già vincitore dei francesi a Trafalgar, sosteneva che la Sardegna “valeva quanto quattro Malta”, vista la sua posizione strategica al centro del Mediterraneo. E molto volentieri ne avrebbe occupato, in quei tempi, i porti principali. La questione dell’insularità è quella che attiene al rapporto che sussiste tra isola e continente. L’autore giudica che la stessa richiesta di iniziativa popolare di modifica costituzionale atta a por fine alla “grave e permanente situazione di svantaggio derivante dall’insularità”, denunci una coscienza di una condizione di dichiarata subalternità. Quasi una richiesta d’elemosina al Signore di turno. Che porta inevitabilmente a provare una “vergogna di sé”. Chiude così: “ La stessa insularità cesserà di essere un problema solo nel momento in cui tale rapporto di subalternità smetterà di sussistere, ovvero solo nel momento in cui l’isola sarà in grado di autodeterminarsi politicamente”. Cristian Perra, suo il saggio: “Industria coloniale e macchina mitologica. Per una storia critica del mito in Sardegna”, definisce industria coloniale dalle ferre leggi ogni manifestazione culturale, ogni pubblicità, ogni rappresentazione e autorappresentazione della Sardegna che ad esse tocca obbedire, dalla terra dei misteri a quella dei banditi, dall’eroismo della Brigata Sassari, all’insularità come “malus”. Tutte queste manifestazioni si costruiscono attraverso la forza motrice del mito. L’analisi dei rapporti che il mito introiettato determina nella coscienza di sé deve portare a una sorta di svelamento, che porti a riconoscere le costanti di pensiero che si riflettono naturalmente nell’agire quotidiano. Prendiamo ad esempio quella che da Giovanni Lilliu è stata teorizzata come “Costante resistenziale sarda”, se considerata come mito di fondazione che attraversa lo spirito delle sarde e dei sardi diventa niente più che un feticcio di autoassoluzione dato dall’apparente impossibilità di tentativi di autodeterminazione di corpi e territori. “I miti del nostro tempo contribuiscono all’immobilismo, al mantenimento della struttura patriarcale, capitalistica e coloniale, alla mancanza di possibilità di scelta perché “è sempre stato così”. Pensare e riflettere nel leggere questo libro, fa del gran bene al cuore.