poesia di GIUSEPPE FLORE; commento di GIANRAIMONDO FARINA
Framas de Ammentu
A logu dignu
A cara a mare
ue nasche sole e s’arza bentu
Donat Amsicora
“Duas framas de ammentu”
Framas ammentant
passione e turmentu
De chie gherrat chin fogu
chin abba e chin bentu
Framas faeddant
de zente’e valore
Chi a dadu sa vida
pro sarvare s’onore
Framas faeddant
de corazu e de gloria
Chi de custa “Caserma”
an’iscrittu s’istoria
Framas ammentant
corpos de benna
Chi no cantzellant
lagrima muda
Chi ti’a bidu in terra
sa die’e sa cundenna
A coro in manu
imbrenugada e nuda
Lassende logu
e caru ammentu
A piantu’e mare
e’a sonos de’entu
Lagrimas chi oe
sunu inoghe presentes
Chin una rosa,
unu lizu,unu fiore
Lagrimas chi oe
ti faghene onore
e ti jughent in coro
onzi momentu
chin sas“ Framas de Amsicora”
basadas dae su’entu
Dentro ogni poesia vi e’ una storia, innestata su un vissuto. Anche dietro questo componimento poetico del caro Giuseppe Flore vi e’ una ricorrenza: quella del disvelamento al pubblico della splendida stele scultorea di due fiamme, a ricordo dell’ex caserma dei vigili del fuoco di Olbia che sorgeva presso il lungomare orientale della citta’ e che aveva ospitato i pompieri dal 1950 al 2007, anno della sua dismissione, prima della demolizione. Una ricorrenza che e’ stata ufficialmente celebrata lo scorso maggio, alla presenza delle massime autorita’ civili, militari e scolastiche locali e che piacerebbe continuare a condividere. L’opera, ideata e coordinata nella realizzazione dal prof. Punzo, sostenuto dall’assistente tecnico Livio Lorenzoni, è stata fortemente sostenuta ed incoraggiata dal prof. Gianluca Corda, D. S. dell’I. P.I. A. “Amsicora”. Il titolo scelto dal poeta e’ abbastanza evocativo: “Framas de Amsicora” che, poi, di fatto, diventano “Framas de ammentu”, fiamme di ricordo. Ebbene, anche in questa scelta del titolo l’amico poeta e’ stato quanto piu’ incisivo. Se, da un lato, queste “framas”/fiamme, invocano la figura mitologica dell’eroe sardo Amsicora, ben rappresentata ed esplicata dagli studenti dell’I.P.I.A. e dalla loro opera; dall’altro, la scelta secondaria del titolo potrebbe essere “framas de ammentu” e sarebbe quanto di piu’ azzeccato. Significativa, in tal senso, e’ la parola “framas”/fiamme, rievocativo della destinazione d’uso dell’antico, ora inesistente, plesso: l’essere stato per vari anni caserma dei VV.F. di Olbia.
Dal punto di vista metrico la poesia presenta organicamente due strutture: una con due sestine, la prima e l’ultima, quasi a “far da cornice” e l’altra con sette quartine, il vero “corpus” dell’opera. La prima sestina e’, un po’, anche l’ “incipit” evocativo alla poesia. Il poeta svolge lo sguardo verso quel palazzo che, ora, non c’e’ piu’. Un luogo degno, importante, segnato dalla storia (“logu dinnu, sinnadu dae tempus”). Un luogo che sorge davanti al mare (“a cara a mare”), caratterizzato dal sole che nasce e dal vento (” vi naschet sole e s’arzat bentu”). Ed e’ qui che, nell’imnaginario vivido del poeta, interviene il vero protagonista, nascosto: l’eroe mitico Amsicora il ribelle che, personificazione anche di tutti gli studenti dell’I.P.I.A., coinvolti collettivamente, e’ lui, il capo sardo pellita, a donare alla citta’ di Olbia ed al suo corpo dei VV.F. queste fiamme di ricordo, “framas de ammentu”. Le fiamme di Amsicora, ora, diventano fiamme di ricordo e, grazie alla lucida intuizione di Peppe, ci accompagnano in questo “viaggio a ritroso” a rievocare l’antica e prima funzione sociale di un edificio, ora diventato luogo di un “non luogo ” metaforico. Amsicora, innanzitutto, dona queste fiamme che sono passione e tormento del lavoro duro e volontario di chi, come i vigili, hanno combattuto, in lotta impari, contro gli agenti della natura come fuoco, acqua e vento (“de chie gherrat chin fogu, chin abba e chin bentu”). Soprattutto in una terra, la Gallura, da tanto tempo in estate (ma non solo) al centro dei disastri causati dagli incendi, purtroppo drammatici, ed, ora, dagli ultimi dissesti idrogeologici dovuti alle alluvioni. Le fiamme di Amsicora, poi, in un continuo crescendo evocativo, sono segni che parlano e raccontano di chi, con valore, ha dato la propria vita per salvare l’onore (“chi a dadu sa vida pro sarvare s’onore). E qua non puo’ non pasare indifferente, nella mente dell’autore, il sacrificio dei tanti vigili o volontari che sono morti. Magari rievocando, lui da anelese, i 7 martiri volontari dell’immane ed apocalittico incendio della foresta demaniale del 31 luglio 1945, la prima strage civile nella Sardegna del secondo dopoguerra. E, magari, lui da olbiese e gallurese adottivo, pensando anche a quelle vittime del rogo di Curragia di Tempio dell’estate 1983. Ancora sono queste fiamme che raccontano e trasudano, soprattutto”, gloria e coraggio. Chi ha vissuto quella caserma ha scritto la storia,un po’ come la gloriosa Brigata Sassari nell’epopea della prima guerra mondiale (“chi de custa caserma a iscritttu s’istoria”). Fiamme che , ancora, ricordano i colpi di benna che demolivano l’edificio (“corpos de benna”) che, pero’, constata amaramente il poeta, non cancellano le lacrime silenziose dei vigili che vi assistevano; anzi la lacrima muta (“sa lagrima muda”) E dopo i ricordi, ora cosa resta? Restano le lacrime sorde, mute, amare dei tanti testimoni che hanno visto la caserma “in prima linea” nella lotta, come una madre lasciata sola nella disgrazia di piangere il proprio figlio morto. Il poeta, come suo solito, riesce magistralmente a passare, aumentando il “pathos”, dall’impersonale al personale. Si rivolge all’edificio non piu’ esistente: “Chi ti ha visto a terra il giorno della condanna”; il giorno della demolizione, quasi fosse quello del giudizio (“chi ti a bidu in terra sa die e sa cundenna”). Un edificio lasciato solo, in ginocchio, in tutta la sua struttura portante, muto (“ancora … imbrenugadu e mudu”). Ed ancora, in un aumento di richiami onomatopeici, lasciando spazio al ricordo, “al pianto del mare”, legato alle acque ed alle onde vicine, ed al “suono del vento”, da quelle parti sempre presente. Queste lacrime, pero’, oggi, nel giorno dell’inaugurazione, sono quelle dei vigili che rendono omaggio alla caserma che fu con una rosa, un giglio, un fiore (“chin una rosa, unu lizu, unu frore”). Lacrime che sono, ora, segni di speranza di una vita che rinasce e che, in ogni momento, fanno amare e circondano quasi fosse un unico coro (“e ti jughent in coro”) questo edificio (ora luogo) di memoria, con sullo sfondo la bellissima effigie scultorea delle fiamme, quelle fiamme di Amsicora baciate dal vento (“framas de Amsicora basadas dae su entu). Fiamme che, ora, scolpite, rimangono a futura memoria ed iniziano a raccontare una nuova storia, senza dimenticare il passato di quel luogo.