di SERGIO PORTAS
Con la presentazione pubblica del libro (a cura di Sandro Ghisu e Alessandro Mongili) “Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna”, Meltemi ed. Tutto su YouTube (dove si può ancora andarlo a vedere), un libro scritto da accademici, ricercatori, che ha l’ambizione però di rivolgersi a tutti, alla cosiddetta società civile in particolare.
Uno “spazio aperto” che crea una discussione sul “pensiero decolonizzato”, che si propone a esempio di valutare quali conseguenze abbia generato la perdita progressiva della lingua madre, per i sardi, e con quali testi, quali programmi scolastici, sia stata portata avanti quest’opera di sopraffazione, visto che è col discorso, col parlare, che gli uomini scambiano l’un l’altro la loro visione del mondo. E da qui ogni decisione di tipo politico, di stile di vita, di rapporti interpersonali. Insomma un tentativo nobile di uscire dal pensiero unico globale di cui siamo circondati e soffermarsi di più sul “pensiero solo” che unisce un po’ tutta l’intellighenzia sarda nel considerare la Sardegna come una grande palude, in cui tutti sono immersi e da cui sembra impossibile districarsi, al di là della diversa colorazione politica di ognuno. La filosofia come casetta degli attrezzi per scardinare un tipo di pensiero imposto da una colonizzazione che oramai non è più neppure percepita, soprattutto dalle generazioni più giovani. Tramite “SardegnaMondo, storia, cultura, politica e attualità, non necessariamente in quest’ordine”, anche Omar Onnis partecipa a questo progetto culturale; nuorese trapiantato in Trentino, storico e divulgatore, usa il web come palestra esplicativa delle sue idee, tra i suoi libri: “Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso”, Arkadia ed., e per lo stesso editore il suo primo romanzo: “La vincita” e “La Sardegna e i sardi nel tempo”. Fa parte del collettivo: La Storia sarda nella Scuola italiana, che si occupa di redigere e diffondere testi didattici sulla storia della Sardegna per le scuole primarie e secondarie, testi per lo più in italiano ma il periodo prenuragico si può leggere anche in sardo e in inglese. Fondamentale, per Onnis, risulta il periodo storico in cui la Sardegna, inopinatamente, finisce sotto le grinfie di casa Savoia, illuminante a questo proposito il libro di Gerolamo Sotgiu: Storia della Sardegna sabauda, 1720/1847, per Il Maestrale.
Giuro che lo leggerò ma quello che ho adesso per le mani è di tutt’altra specie: l’ultimo del cagliaritano Francesco Abate: I delitti della salina, Einaudi editore. Il nonno Abate veniva giusto da Torino e, seguito dalla famiglia, sbarcò in Sardegna dove concluse, alla grande, la sua carriera militare: coi gradi di generale. Il figlio (babbo del nostro Francesco) non ne voleva sapere di finire in questa terra di pecore e pastori analfabeti ma, alla fine, fu l’unico della famiglia che rimase nell’isola, di cui si era innamorato perdutamente, capita…Francesco vanta un curriculum variegato che lo vede esordire come disc jockey all’età di 14 anni, curatore di programmi musicali specie di musica indipendente, organizzatore di festival e concerti, tra i fondatori di Radio X, col nome di Frisco per buoni quindici anni fa il deejay nei club della Sardegna. Sino al 2001 è alla direzione artistica di Radiolina. Intanto si mette a scrivere, ora ha alle spalle una decina di romanzi, altrettanti racconti pubblicati su libri con altri autori, è giornalista per l’Unione sarda.
Di questo suo ultimo ne scrive anche Onnis su “SardegnaMondo”, postato (orribile neologismo) questo 26 gennaio con titolo: “La rivolta dell’oggetto: la letteratura sarda attuale come fonte di emancipazione collettiva”. Omar Onnis si interroga sulla densità letteraria di un’isola che conta poco più di un milione e seicentomila abitanti, afferma giustamente che “le tematiche e le formule narrative sono estremamente eterogenee. Dall’intreccio noir al romanzo di formazione, dal realismo magico alla fantascienza e al romanzo storico, non c’è genere o stile che la letteratura sarda non abbia esplorato nell’ultimo mezzo secolo”. “Anche la lingua usata da autrici e autori isolani è spesso fonte di spiazzamento o di incomprensione, tanto in Italia quanto in Sardegna. È consueta la mescolanza di italiano e sardo, in dosi e modalità di impiego assortite. A volte è una necessità espressiva, a volte è semplice realismo. Perché è la realtà sarda stessa a essere meticcia e dinamica, più di quanto ci piaccia pensare. Eppure tutto ciò viene vissuto come una sorta di trauma o di problema”.
I delitti di cui si parla, le saline sono quelle di Cagliari, si inserisce magistralmente in quest’ottica di ragionamento. Intanto la protagonista è essa stessa meticcia, figlia di una cinese, pare ce ne fossero parecchi nei vicoli della Marina ai primi del ‘900, e di un militare, ufficiale di marina che, al servizio del re, non è tornato a casa dalla “guerra dei boxer” nella quale anche l’Italia si era schierata con altre sette potenze mondiali, da le maggiori europee al Giappone, la Russia, gli Stati Uniti, per “difendere gli interessi occidentali” in Cina. Fu essenzialmente una rivolta di popolo contro i presunti “portatori di civiltà”, che volevano fare della Cina la nuova Africa, spartendosi ricchezze e influenze. Con in mezzo i missionari cattolici portatori della “vera religione”. Quelli che ne fecero le spese, in termini di morti, a migliaia, furono proprio i cattolici cinesi convertiti. L’imperatore cinese dovette abbozzare. Dodici anni dopo l’impero ultramillenario crollò e nacque la Repubblica cinese. La nostra eroina, morta la madre nel parto, è comunque nipote di ricco armatore cagliaritano e, udite udite, lavora come cronista per l’Unione sarda, che con i suoi quattro fogli è l’internet di quel periodo: se non lo scrive l’Unione il fatto non esiste, non conta.
Il fattaccio che a tutto da inizio sono le morti, e le scomparse, di quei “piccioccus de crobi” che stazionano giornalmente dalle parti del mercato comunale. La corbula usata come materasso per dormire per terra, come ombrello per salvarsi dal sole d’agosto, per portare la spesa a casa delle ricche signore in cambio di qualche spicciolo, di un pezzo di pane. Figli e figlie di prostitute, di gente finita in miseria, orfani di padre e madre. Tutti insieme, a fare gruppo, per scansare la fame quotidiana, scalzi e sporchi, il mare per lavarsi, pochi stracci per vestirsi. Erano centinaia quindi a chi vuoi che importi se alle saline compaiono improvvisamente piccoli cadaveri storpiati? È notizia per l’Unione? Clara ne vorrebbe scrivere, a lei si rivolge anche Maria Boi, detta Sa Rana, la rana, in grazia di un fisico non propriamente da modella, altra donna, sindacalista alla fabbrica dei sigari, le ragazze che vi lavoravano erano più di quattrocento e l’ultimo sciopero, riuscitissimo, verteva sulla richiesta di portare le quindici ore giornaliere di lavoro al numero di dodici. I signori proprietari non ne volevano sapere. Tempi duri per la classe operaia di allora, toccò ai morti di Buggerru dare la sveglia al sindacato per il primo sciopero nazionale italiano. A sparare l’esercito del re, anche a Cagliari i carabinieri sono in assetto di guerra quando si svolgono i funerali dei “piccioccus”, e al primo sasso lanciato da mestatori prezzolati, la folla delle sigaraie e dei lavoratori edili (molti anarchici fra loro) viene caricata coi cavalli. Sarrana quasi ci rimette un occhio. Francesco Abate ricostruisce una città esotica e inedita, dalle saline al Bagno penale, dal bordello al teatro d’opera (ci andavano anche gli operai, ndr.) alla spiaggia del Poetto. Deserta di case e bagnanti, giusto la villa del nonno di Clara. Una città avvolta da un’atmosfera da feuilleton, per lo più assediata dal sole: l’incipit della storia: “Le piramidi di salgemma si accesero di rosa. Anche quella mattina di fine agosto concesse ai quarzi di riflettere la luce del sole appena sorto sulle vasche dell’immensa salina, che si infiammò di rosso e ocra. Fatta eccezione per qualche cavaliere d’Italia che si aggirava tra gli acquitrini, tutto era immobile, quieto”. Al di là del finale, che pure deve svelare comportamenti della natura umana che rasentano la verosimiglianza, non sarebbe un noir del resto, torno a convenire con Onnis che scrive: “…ciò che ne fa un caso esemplare è proprio la libertà con cui rompe gli schemi precostituiti, viola le aspettative stereotipate, spiazza il lettore prevenuto. È un esempio della “rivolta dell’oggetto” (Michelangelo Pira, l’oggetto in questione è la Sardegna, ndr.) a cui la letteratura, l’arte e la musica da tempo ci richiamano con insistenza, in Sardegna”.
Di Francesco Abate mi preme di dire che è capace di scritture diversificate, assolutamente spiazzanti, che sono pervase sempre da una sottile dose di ironia e umanità, in grazia della sua storia di trapiantato (“Torpedone trapiantati” è del 2018), dall’aver convissuto con una madre “fuori dal normale”, una sarda capace d’amore e di battipanni uso a raddrizzare comportamenti filiali non sempre nella norma (“Mia madre e altre catastrofi”, del 2016), si può addirittura vedere su You Tube: la mamma è la grande Piera Degli Esposti. Ma una lancia speciale mi tocca di spezzare per “Un posto anche per me”, la storia di Peppino, da sempre abbandonato da tutti, grasso e tenero, spacciatore a Roma per violenza di altri, in esso si possono trovare tutti gli elementi biografici e geografici (oltre che generazionali: classe 1964) dell’autore, in questo libro che, scriveva Marco Mathieu su “Repubblica”: “…scritto in una lingua svelta, ma attenta ai particolari. Innervata da inflessioni e pure parole sarde che Abate riesce a rendere universali. Con uno stile che ha nel ritmo e nella contaminazione, nell’ironia e nella dolcezza, le sue caratteristiche”. È uscito nel 2013, ieri l’ho ripreso in mano, confesso che non ne ricordavo una riga, non sono andato a dormire finché non l’ho riletto sino all’ultima pagina.
L’ho letto, bello, spero avrà un seguito