di ALESSANDRA MELDOLESI
“Sono contento di raccontare la mia storia: è la storia di tanti ragazzi italiani, che dopo l’università si sono rimboccati le maniche in cucina e appassionati sempre più”.
Sullo sfondo abbagliante delle Northern Beaches, incorniciato dalla sinuosa veranda primonovecentesca, oggi Federico Porceddu è felice: a 35 anni è head chef di uno dei ristoranti più affermati della zona di Sidney, Pilu at Freshwater, che vanta due cappelli nella principale guida nazionale, Good Food. Ha trovato l’America, anzi ha ritrovato la Sardegna, in Australia. Ed è una storia di tanti, anzi tantissimi, perché la cucina oggi è fatta anche di stimoli e cultura. Nato a Guasila, vicino a Cagliari, da papà agricoltore e mamma bancaria, Federico, appassionato di giornalismo d’inchiesta e grandi reporter, si è laureato in Beni culturali con tanto di lode e tesi pubblicata negli annali dell’università. Ma non è bastato per trovare lavoro in Italia. “Così ho deciso di trasferirmi nel Regno Unito per imparare l’inglese. E ho scelto Edimburgo, una città piccola ma ricca. Avendo necessità di mantenermi, senza padroneggiare la lingua, potevo lavorare solo come custode o in cucina. Ed è successo che ho trovato un posto da lavapiatti in uno dei ristoranti di Giorgio Locatelli, Cucina presso l’Hotel Missoni”.
Dopo qualche settimana però la linea si inceppa per mancanza di personale. “Ti va di darci una mano?”, gli chiede lo chef. “Ma io non so tenere un coltello in mano…”
Da lì una necessità che si trasforma in passione, anzi nel ricettacolo di ogni altra passione, comprando libri e confrontandosi con gli altri ragazzi. Dopo 3 anni Federico è capopartita ai secondi. “Ma la passione per il fine dining era troppo forte, volevo assolutamente mettere piede in un tre stelle. Così sono tornato in Sardegna, da Stefano Deidda e Roberto Serra; poi ho virato su Copenhagen, ma era inverno e c’era solo il ghiaccio. Sono passato in Italia da Cristiano Tomei, un cuoco anarchico, affascinante, che cucina senza regole; poi Oliver Piras mi ha messo in contatto con Norbert Niederkofler. Ed è stata un’esperienza che mi ha cambiato perché ho capito cosa volesse dire alta ristorazione, l’attenzione al dettaglia, la cura della materia prima, l’importanza della gerarchia. Sono rimasto da commis per 6 mesi e avrei voluto fermarmi di più, anche in virtù dell’amicizia con Michele Lazzarini; ma mi restavano poche centinaia di euro e sulla soglia dei 30 anni ho colto l’ultima opportunità di lavorare in Australia, visto che dopo sarebbe stato impossibile ottenere il visto di vacanza lavoro. Qua fa tendenza una cucina casual, senza il perfezionismo dei nostri stellati; ma io avevo sentito parlare di questo sardo fine dining e mi sono presentato”.
“Nella cucina di Giovanni e Marilena Pilu, un anno dopo l’altro, ho avuto l’opportunità di crescere, fino a diventare head chef un anno e mezzo fa. Oggi la gestisco io, mentre Pilu segue il gruppo con la trattoria di cucina italiana dall’altro lato della spiaggia e il chiosco di panini e casual modern australian da aperitivo. Soprattutto ho capito cosa volevo fare davvero: riprendere le mie radici e rielaborarle nella forma di una cucina sarda contemporanea che rispecchiasse le tradizioni in modo personale, dove convogliare le mie esperienze, il perfezionismo di Niederkofler, l’anarchia di Tomei, l’amore per le tipicità di Serra e il contemporaneismo di Deidda. Come la Sardegna, l’Australia è un’isola, ma sconfinata, con tanti habitat e climi diversissimi. Nella zona di Sidney però il clima ricorda il nostro: è mite, ci sono tantissime spiagge con un’acqua bellissima, l’estate è calda, l’inverno non è mai rigido. Quindi le materie sono simili”.
Federico parla di prodotti premium come scarlett prawns, toothfish (o moro oceanico), granchio blu, tonno pinna gialla e aragoste, prima interamente esportate in Cina; oltre all’agnello della Tasmania e al maialino suckling pig. Mentre dalla Sardegna arrivano pane carasau, fregula, pomodori pelati e formaggio. Non l’olio, che viene molito in tandem con una fattoria locale da cultivar italiane, e la bottarga, autoprodotta con i muggini di Brisbane. Finisce sulla ricotta in benvenuto o sulla pasta, con un picco durante la stagione dei carciofi.
“Nel piatto cerco l’eleganza, la delicatezza”, dice Federico. Vedi il Tonno alla carlofortina, retaggio dell’antica colonia di pescatori liguri, rielaborato in forma di tartare di pinna gialla locale, pesto destrutturato di maionese al basilico, scagliettine di Parmigiano, foglie di basilico e pinoli tostati, gazpacho di pomodoro e olio al basilico.
Oppure l’agnello con gel di limone fermentato, crema di uovo al sifone e menta, sulla falsariga di una salsa bianca. Di fatto il menu degustazione da 8 corse è interamente ispirato alle tipicità isolane; costa 180 dollari australiani, equivalenti a 140 euro, con la concorrenza della carta e di frequenti wine dinner con le cantine australiane. Ma di sardo ci sono ovviamente anche tanti vini: più di una volta la cantina, gestita da due sommelier, è stata premiata come la migliore del paese, per la selezione di referenze isolane e locali. Tirano soprattutto Cannonau e Vermentino, ma c’è posto anche per la Vernaccia di Oristano, protagonista della salsa del moro oceanico con purea di olive e native australian sea herbs. Ed è allo studio anche una ricetta con la Malvasia di Bosa. “Ogni tanto mi prende la nostalgia di casa, perché sono 17500 chilometri da attraversare. Ma l’Australia è un paese dove l’economia tira ancora e offre tantissime opportunità in termini di qualità della vita. Oltre alla natura, posso ancora seguire le mie passioni, la storia, la letteratura, l’arte. E non lavoro tutto il giorno per meno di mille euro al mese. Gli australiani sono un po’ schizzinosi, è impossibile proporre loro una testa di agnello o una salsa col fegato di pesce, come quella della burrida. Perfino la pasta violada delle seadas devo prepararla al burro, e non allo strutto, per farla accettare. Ma sono molto curiosi e amano ascoltare la narrazione dietro i piatti: la storia di un’isola passata dai fenici agli aragonesi, fino ai Savoia e ai giorni nostri. Mi piace andare al tavolo e raccontare il significato dei culurgiones, augurio di fertilità della terra, o dei filindeu, di cui ci riforniamo da una donna sarda. Sono 50 chili all’anno, che serviamo con consommé di agnello, crema di pecorino, olio alla menta ed erbe di stagione rinfrescanti. So solo che se alla fine dovessi rientrare, mi piacerebbe riavvolgere il nastro e lavorare in un museo”.
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