di ALESSANDRA MELDOLESI
Centoquaranta ettari di vegetazione spontanea irrorati dalla vena del torrente Lazone, olivastri, lentischio e mirto a perdita d’occhio, di sensi, di testa: si trova qui, sull’altopiano basaltico di Paulilatino, Tanca Marchesa, la casa di Giuseppe Cugusi e delle sue pecore di razza sarda, protette da rustici cancelli in rami di corbezzolo intrecciati ad alaterno fra i muretti a secco, su cui pende qualche ciuffetto di lana. Poco distante il pozzo sacro di Santa Cristina, al confine con le terme dell’imperatore Traiano, scruta le profondità della terra, su cui tintinna la mandibola del gregge libero da qualsiasi sorvegliante. Nel centro la casa colonica dove per miracolo il latte si trasforma in un pecorino sardo ormai famoso in tutto il mondo.
Nel suo ovile Giuseppe rientra ogni mattina con la moglie Laura Ginesu, addetta al commerciale, dalla casa di Macomer. Lui che fra le pecore ha mosso i primi passi: nonno pastore, padre pastore, già a 11 anni appena sveglio iniziava a mungere e quando tornava da scuola ricominciava a dare una mano in campagna. “Ma eravamo otto figli e non ce n’era abbastanza per tutti. Così a 14 anni sono andato a lavorare per altri”. Tutt’intorno, nel frattempo, si è reso conto che qualcosa cambiava. “Erano gli anni ’80 e ogni giorno saltava fuori una novità, bisognava essere flessibili in qualsiasi campo. Da noi sono arrivate le prime mungitrici e i mangimi concentrati, quando prima al massimo si allungava un po’ di granturco per necessità, ma si pensava che così le pecore avrebbero fatto più latte. La gente ormai voleva arrivare sulla luna. E il formaggio non usciva buono, la cagliata era molle, senza consistenza e la pasta, quando la mettevi ad asciugare e affumicare, non restava dritta ma scendeva come una torta che si sgonfia. I consumatori accettavano qualsiasi cosa. Così ho deciso di tornare indietro e di ricominciare a lavorare come mio padre, puntando sulla qualità anziché sulla quantità. Rispetto a lui non è cambiato niente, a parte le mungitrici e i refrigeratori. Perché il formaggio si fa solo la mattina, a crudo, unendo il latte della sera, cosicché il risultato è più omogeneo. Me ne occupo personalmente, a mano. Perché solo la qualità non può essere copiata da nessuno, quella che preserva i profumi delle nostre erbe e dei nostri cespugli”.
Dal 1994 avviene a Sa Marchesa e le soddisfazioni non si sono fatte attendere, anche grazie alla strategia commerciale sui generis. “Nel senso che il Fiore Sardo era in crisi, grossisti e intermediari si comportavano come strozzini. Il formaggio veniva fatto per l’intera stagione e venduto tutto assieme, ma i prezzi erano una roulette. Noi abbiamo deciso di rompere la catena e muoverci da soli. Mia moglie ha iniziato a telefonare ai responsabili dei formaggi nei grandi ristoranti, chiedendo se fossero interessati a una piccola degustazione, per avere un parere. E ci richiamavano entusiasti, dalla Pergola come da Pinchiorri. Poi è arrivato Gianni Mura, che ci ha fatto conoscere nel 2006”. Marketing creativo e know how ancestrale: sono questi i segreti dei due, tenaci e testardi come solo i resistenti isolani.
La maggior parte della produzione è tutt’oggi costituita dalla Dop isolana. “Ma il Fiore Sardo dei pastori ha poco a che spartire con quello dei caseifici. Io non sono neppure nel consorzio. Dicono che usano latte non pastorizzato, ma non esiste analisi per appurarlo. E a me basta guardarlo a occhio: è così compatto che sembra quasi un semicotto; quello autentico, non pastorizzato, invece ha un’occhiatura prodotta dai batteri, né troppo fine né troppo grossa. Con i fermenti lattici poi sviluppano profumi chimici e non affumicano, come me, con olivastro, lentischio e mirto, che è importantissimo. Certo lavorando con il latte crudo ci può essere qualche forma che non viene bene, può capitare una gonfiatura a causa dei batteri, ma dopo due mesi sparisce e prima di quell’intervallo non potrei comunque commercializzarla. Da disciplinare per il Fiore bisogna attendere 100 giorni, ma il gusto vero arriva dopo 10-11 mesi di stagionatura, allora l’acidità scema e diventa come un Parmigiano, fino a due anni, due anni e mezzo. Non oltre perché essendo lavorato quasi a freddo, sarebbe impossibile fare forme più grandi”.
Attualmente le tipologie in produzione sono 6, per un prezzo all’origine che oscilla attorno ai 14 euro. Il Lazzone è un pecorino a latte crudo preparato con caglio di vitello, quindi meno piccante del Fiore Sardo da caglio di agnello, leggermente affumicato e lavato con aceto di vino rosso e olio extravergine. Poi c’è il Sa Marchesa, che si consuma fresco. “A me piace molto il Barigàdu, nato su richiesta di un cliente di Forlì. ‘Ti mando io il tartufo, pensaci tu’, mi ha detto. Al che gli ho risposto che se non mi fosse piaciuto, non lo avrei mai prodotto. Il tartufo nemmeno lo conoscevo e quando ho aperto il barattolo, mi sono detto: Che puzza!”. Si tratta di un nero di Acqualagna, sparso a strati al centro della forma.
Ma ad andare fortissimo sono soprattutto le tipologie “creative”. Il pecorino Foz’e Murta viene tinto al centro dal succo delle bacche di mirto, raccolte nella tanca. “Piacciono anche alle pecore, perché sono dolci. Prima ho provato a usarle intere, poi abbiamo azzeccato la ricetta spremendole”. Oppure il Barone, preparato con un’infusione di s’armidda, profumatissimo timo selvatico raccolto personalmente in Barbagia, attorno ai 900 metri di altitudine.
Da freschi i pecorini sono buoni arrostiti o sulla pizza, come fa Pierluigi Fais da Framento; più stagionati anche per mantecare i risotti. “Ma a me piacciono tutti i formaggi”, puntualizza Cugusi. “Anzi a casa mia ci sono più vaccini o caprini comprati che pecorini della casa, per sentire le differenze. Facevo anche il casu martzu, poi è successo che la mosca ha attaccato il formaggio al tartufo e dovevi assaggiare che bomba. Peccato averlo tolto dalla tavola”.
Complimenti