di LUCIA BECCHERE
La figura della madre nelle opere di Salvatore Satta e Grazia Deledda offre al lettore spunti di riflessione e di approfondimento sul suo ruolo nella famiglia e nella società barbaricina di fine Ottocento e primi Novecento. Nel romanzo di Satta Il giorno del giudizio, donna Vincenza è l’immagine dolente di madre che trova nutrimento nell’amore verso i propri figli, simbolo eterno di speranza. Vive nel suo fortino notarile subendo il patriarcato del marito, a lui estranea seppur unita in matrimonio. Satta la colloca in uno scenario borghese che si snoda nei primi decenni del Novecento, affonda le sue radici nel mondo rurale decadente dove rivive una società sarda senza speranze e dove non si ravvisano pentimenti o assoluzioni di colpe, ma tutto si riconduce alla sublimazione del mistero che sovrasta l’uomo.
Attraverso l’uso sapiente di locuzioni polisemiche e di ossimori che fioriscono qua e là, perfino la morte mostra la sua dualità di finito e infinito, di materia e spirito, di immanente e trascendente.
Donna Vincenza fonda il suo matrimonio su equilibri affettivi ingannevoli e precari. Nessuna condivisione e nessuna complicità fra marito e moglie. Immerso nel lavoro, don Sebastiano decide e impone, in netto contrasto con la sensibilità di lei non ha tempo per amare, creando così un fossato con moglie e figli che gli resteranno sconosciuti. Proiettato verso il benessere materiale della famiglia, non si preoccupa della loro felicità.
La totale carenza affettiva crea l’incompatibilità fra i due coniugi e quando i figli abbandonano la casa per motivi di studio o di lavoro, la madre, devastata dalla malattia, si allontana dal mondo consumando in totale solitudine l’incanto di una breve felicità racchiusa nel suo paradiso perduto: l’orto paterno di Istiritta. Pur non accettando di divenire mero strumento del marito, nessun anelito di indipendenza che la affranchi dalla sottomissione e la collochi in una posizione paritaria.
L’assenza della soggettività nell’agire o di indirizzare le azioni la colloca subalterna alla figura maschile.
Se la carenza di affettuosità da parte del marito la rende fragile e inadeguata, le reiterate umiliazioni alimentano in lei un profondo rancore racchiuso in un silenzio accusatorio. La morte delle due bambine, del figlio Peppino e la lontananza degli altri figli che lasciano la casa per motivi di studio, fanno di donna Vincenza una sepolta viva, emblema di una catastrofe familiare.
Nelle opere della Deledda, la figura della madre affonda le sue radici in un sottobosco altamente simbolico, rifugge dal senso di asservimento femminile in quanto non denota passività, è connotata da una autorità autonoma nel sistema patriarcale in cui il ruolo e la collocazione di casta sono ininfluenti per determinare l’autorità della donna. Affrancata dalla figura maschile nell’agire e nella capacità di indirizzare le proprie azioni in quanto “misura giudicante”, la madre si colloca al di fuori di un ruolo subalterno alla figura maschile.
Nella Deledda esistono valori condivisi fra uomo e donna che tuttavia non generano mai complicità perché l’ordine femminile e maschile si misurano con un notevole scarto di autorità femminile che trae linfa proprio dall’autorità della madre in quanto tale. All’incertezza maschile si contrappone la risolutezza femminile. È la donna che agisce, orienta e conduce. Alla fragilità di donna Vincenza, la Deledda contrappone una madre severa, capace di mantenere sempre il controllo di sé, mai tenera e se l’amore verso i figli è totale, il rapporto fra madre e figlio è gerarchico, mai alla pari.
L’autorità giudicante appartiene solo a lei e poiché non contempla distinzioni fra madri buone o madri cattive, nessun figlio può osare di giudicarla, nessuno può scalfire la sua autorità assoluta. Icona di un valore simbolico, la madre deleddiana racchiude in sé anche la forza del riscatto sociale. Se in Satta la figura del padre è dominante e ingombrante, nella Deledda la centralità della madre rende superflua l’assenza o la presenza e seppure viene affermato il predominio maschile, l’autorità femminile non viene mai messa in discussione.
Resta comune a tutte le madri quel filo rosso che le lega ai propri figli.
È l’amore materno che contempla gioie, attese, speranze, ma anche tante privazioni e sofferenze.
Dolce e tenera, forte e severa, fragile e sottomessa, autoritaria e determinata, simbolo di amore assoluto, la madre vive oltre la morte.
Ai figli resta sempre la consapevolezza di non averla mai amata abbastanza.
per gentile concessione de https://www.ortobene.net/