UN ANTICO RITUALE DI GUARIGIONE IN SARDEGNA: SU BALLU E S’ARGIA

di ROBERTA CARBONI

La Sardegna, si sa, è una terra di leggende che spesso sono nate per spiegare fenomeni ed episodi della vita di difficile interpretazione. La saggezza popolare, permeata di credenze, rimedi e superstizione, ha arricchito l’enorme patrimonio immateriale di questa terra, dandole una connotazione magica ed affascinante. Antiche pratiche magico-rituali, come ad esempio “sa mexina ‘e s’ ogu”, sono ancora in uso in molti centri dell’isola che non hanno mai perso il legame con un passato che si perde nelle pieghe della storia.

Molte delle antiche pratiche magico-rituali traevano origine dalla necessità di guarigione, soprattutto nel caso di patologie di cui non si conoscevano le cause. A metà strada tra l’esorcismo e la magia, esse partivano dalla stretta correlazione individuata tra possessione diabolica e “malattia”.

E tra i rituali esorcistici per liberare le anime possedute, uno tra i più antichi è “s’argia”, anche detta “s’arza”, il cui termine significa “variopinta”.

Si tratta di un ballo esorcistico che presenta molti tratti in comune con altre culture dell’Italia Meridionale – il ballo pugliese dei pizzicati dalla “taranta” è uno tra i più celebri – e trae la sua origine dal morso di un insetto, nella maggior parte dei casi un ragno, il cui nome scientifico è “malmignatta latrodectus tredecimguttatus”.

Conosciuto come “ragno del Diavolo” o “vedova nera mediterranea”, è un rarissimo esemplare di ragno velenoso.

Sono tante le leggende che raccontano la presenza sull’isola di questo raro e temibile insetto, ognuna abbastanza simile all’altra con alcune varianti a seconda dell’area geografica. Una tra queste racconta che in passato, durante una festa in maschera in onore del Carnevale, tra balli e musiche che si svolgevano per le strade di un piccolo paese, le persone si interruppero improvvisamente alla vista di un sacerdote che passava per  portare il viatico ad un moribondo. Tutti allora s’inginocchiarono in segno di rispetto, fatta eccezione per alcuni giovani, che addirittura risero. Il sacerdote li rimproverò per questo comportamento e gliene chiese il motivo. Con la stessa irriverenza, i giovani risposero che non gli interessava, perchè loro non erano persone, erano arge. Da quel momento cominciò a soffiare un vento terribile e, in pochi istanti, i giovani furono sospinti in alto e portati via, mentre una voce lontana e grave tuonava la loro condanna eterna: quella di trasformarsi per sempre in arge.

Secondo un’altra leggenda, invece, per fare un regalo agli uomini, Dio decise di sterminare tutti gli animali e tutti gli insetti velenosi presenti sull’isola. Scatenò un’Apocalisse che uccise vipere, scorpioni e insetti capaci di procurare, con il loro morso o la loro puntura velenosa, la morte dell’uomo. Sopravvisse soltanto una creatura, talmente piccola da sfuggire perfino all’occhio divino, ma che, a dispetto delle sue esigue dimensioni, era la più letale. Si trattava, appunto, dell’ “argia”, un piccolo ragno il cui veleno è quindici volte più potente di quello del serpente a sonagli.

A temerne il morso dell’argia erano soprattutto i contadini, poichè il ragno si annidava tra le sterpaglie, specialmente nel periodo del raccolto, cioè in un momento fondamentale per una società agropastorale come quella sarda. Ad esser morsi erano soprattutto gli uomini – in numero maggiore nei campi rispetto alle donne – proprio nell’ora di riposo sotto l’ombra degli alberi. La mancanza dell’uomo dai campi rappresentava per la famiglia, e più in genere per la comunità, una vera sciagura. Non solo dal punto di vista materiale connesso alla penuria di forza lavoro, ma anche da quello spirituale. Era come se le forze del male con quell’avvertimento minacciassero l’intero villaggio. La persona morsa era chiamata “s’argiau” e non sempre si accorgeva subito della puntura, che in alcuni casi non provocava dolore, ma si manifestava con una serie di sintomi inequivocabili: febbre alta, tremori, sudorazione abbondante e, soprattutto, spasmi addominali e movimenti compulsivi simili ad attacchi epilettici. In molti casi s’“argiau” era anche vittima di allucinazioni, stati d’ansia, depressione e turbe psichiche di vario genere, perciò veniva trattato come se fosse posseduto da spiriti maligni.

L’”argia”, infatti, nell’immaginario collettivo non era semplicemente un ragno velenoso, bensì la manifestazione terrena di anime condannate e penitenti. Ecco perchè l’approccio per indurre la guarigione era a tutti gli effetti un esorcismo. Ma non si trattava di un esorcismo comune, in cui il rituale coinvolge un sacerdote o un ministro del culto, ma di un esorcismo collettivo. Per prima cosa era necessario scoprire di che natura fosse l’argia in modo da sapere come combatterla ed eliminare la possessione. Secondo la tradizione, infatti, ne esistevano principalmente tre tipi che si distinguevano sulla base del colore, secondo un criterio analogo a quello utilizzato negli abiti tradizionali dalle donne per connotarne lo status sociale: il nero per la vedova, il bianco per la nubile e il maculato per la sposa. Al morso di ognuna di queste argie, dunque, corrispondeva una variante esorcistica. Tutta la comunità era coinvolta nell’indagine, ma solo una persona era “chiamata a colloquio” con il posseduto. Si trattava, generalmente, di una persona con la quale il malato aveva confidenza, come ad esempio un parente stretto. Questi rivolgeva alla vittima delle domande precise, finalizzate a stanare l’argia e costringerla a rivelarsi, mettendo a nudo, così, la sua vera natura. Il demone, infatti, parlava attraverso la bocca della vittima di cui aveva preso il corpo. Il dialogo poteva avvenire in maniera canonica – come una semplice conversazione – oppure in forma recitata, attraverso i “brebus”. Durante il dialogo la comunità cominciava a stringersi in una danza al ritmo di musica delle launeddas che simulava i movimenti concitati del malato, ripetuti e monotoni esattamente come la melodia di sottofondo. Tutto questo avveniva in un clima di festa amara, nel quale si danzava per tre giorni, al termine dei quali, solitamente, si avevano i primi risultati che lasciavano presagire la guarigione o il perdurare della possessione. Nel primo caso, il posseduto sembrava acquistare segni evidenti del proprio carattere e della propria personalità, uniti alla scomparsa del tremore. In caso contrario era necessario continuare ad agire attraverso ulteriori rituali d’incubazione. Esattamente come il ballo, che traeva fondamento dai rituali pagani legati alla fertilità e ai cicli della vita, anche l’incubazione era legata al paganesimo.

Il malato veniva avvolto da un sacco che lo copriva fino al collo e calato in una fossa fino all’altezza della testa, che rimaneva esposta all’aria. Una volta calato il posseduto, la fossa veniva ricoperta con del letame. Attorno alla fossa danzavano 7 vedove, 7 vergini e 7 spose, per un totale di 21 donne, le quali potevano alternare la danza con azioni rivolte direttamente al malato. Potevano sputargli addosso, schernirlo oppure farlo ridere, per provocare una qualsiasi reazione. Questo rituale è legato al culto nuragico della Luna, perciò ad ogni categoria di donna corrispondeva una luna: luna crescente per le vergini, luna piena per le spose e luna calante per le vedove.

Tornato cosciente, il posseduto non avrebbe ricordato niente di quanto gli era capitato, così come capitava ai pazienti sottoposti ai riti nuragici d’incubazione. Questo particolare è condiviso da molte cerimonie esorcistiche che prevedono una purificazione totale della persona posseduta, che si manifesta con una perdita della memoria al risveglio.

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