di MATTEO PORRU
Il campanile della chiesa di Santa Caterina a Mores, un piccolo capolavoro neoclassico, lo progettò Salvatore Calvia e Pompeo, suo figlio, ne era orgogliosissimo. Non tanto per il campanile in sè, ma perchè a farlo era stato suo padre, che in quel borgo sassarese c’era nato e che sarebbe stato il suo principale faro umano e culturale negli anni a venire.
Pompeo, o Pompeo Carmine, dalle liste di leva, viene al mondo un freddo diciotto novembre sassarese del 1857. La sua è un’infanzia agiata e un’adolescenza tranquilla, ben seguita da Salvatore e da Antonietta, sua madre. Niente da segnalare fino ai vent’anni, quando viene arruolato come fante, e poi come caporale, nella cinquantaseiesima divisione a Napoli.
Il cambio di città lo scaraventa in un clima di fermento culturale e politico che dì lì a poco avrebbe consacrato, e forse immortalato, l’anima e la veracità dei partenopei, con una serie di pietre miliari della musica e della poesia popolare.
Ci va a nozze, Pompeo, ed entra nella cerchia dei giovani mazziniani, dove conosce il politico e giornalista Alberto Mario. Ma è un sogno che dura tre anni: nel 1880, Pompeo torna a Sassari, ma non perde quella voglia di creare e condividere che, da quel momento, gli apparterrà sempre.
E sperimenta, dipinge, compone, prosa e poesia.
Il gruzzolo che porta a casa glielo garantisce l’impiego di disegnatore che, dopo il praticantato nello studio del padre, lo porta all’Ufficio Lavori delle Ferrovie dello Stato. Ma in testa, sotto i capelli ondulati pettinati a sinistra, Pompeo ha un mondo di idee: collabora con le testate e con le riviste più importanti della Sardegna, anche come illustratore; le sue liriche, che inizierà a pubblicare molto presto, maturano nel contenuto e nello stile e rivelano una piacevole ironia che non cade mai nella satira, sguarod non ovvio per un uomo notoriamente riservato e introverso.
Ha rapporti con Sebastiano Satta e con Luigi Falchi e con loro pubblica Nella terra dei Nuraghes, che raccoglie molte sue poesie giovanili. A recensire quella raccolta su “La Sardegna letteraria”, osannandola, sarà Grazia Deledda, che apprezzerà anche i suoi lavori da solista e Sassari Mannu su tutti, dove Calvia raccoglie centoventuno liriche scritte in logudorese e in italiano, in più di trent’anni di vita, con tutti gli influssi linguistici, dialettali, politici e culturali che lo hanno conquistato nel suo percorso di poeta e di autore. Il suo romanzo storico, Quiteria, curiosamente firmato con lo pseudonimo Livio de Campo, è la riprova del concentrato di ideali e sentimenti eroici e patriottici, sullo sfondo della battaglia di Macomer.
Gli ultimi anni di attività letteraria sono impegnati in un accesissimo dibattito sulla lingua letteraria e nella stesura degli ultimi racconti. Il diabete che lo perseguita gli causa una paralisi irreversibile, che lo uccide poco più che sessantenne, in una stanza dell’ospedale di Sassari, circondato dagli affetti di una vita.
E’ l’occasione di rammentare l’antologia di Manlio Brigaglia “Il meglio della grande poesia in lingua sarda” (Della Torre) dove sono raccolte poesie di Pompeo Calvia – che poi ho personalmente tradotte in francese con impegno e piacere (vedi “Les Grands Classiques de la poésie en langue sarde”, Parigi, L’Harmattan, 2020).
Claude SCHMITT