di ANGELICA GRIVEL SERRA
Elisabetta fissa il plissé appeso al melograno: ha l’impalpabile consistenza dell’acqua nel compiacere i moti del vento, a seconda del suo virare dal brusco al dolce. È una luna di serico pervinca. Il terso verde delle iridi di Elisabetta è immobile sull’ondeggiare del tessuto, che gioca, in un incessante apparire e dissolversi, tra le trame sottili dei rami dell’albero che rosseggia fuori, nel cortile. È una specie di rapimento estatico cui lei si abbandona per attimi. Ora, però, basta riservargli occhiate! Deve lasciare che i soffi d’aria ne asciughino le cromie. D’altronde, la tintura è ancora fresca. Potrà dirsi pienamente pervinca solo ad asciugatura completa.
Elisabetta sa bene che sarebbe molto più agevole un metodo più rapido, ma la frenesia della curiosità non vince mai su di lei.
Stizzisce d’istinto, all’eventualità di cedere alle lusinghe di un processo di asciugatura veloce, necessariamente artificiale, che sgualcirebbe definitivamente la fantasia del tutto casuale propria della natura spontanea di quei colori che al vento danzano sul tessuto. Il risultato di questa danza sarà qualcosa di unico, irripetibile. Qualcuno potrebbe chiamarlo difetto, ma Elisabetta ha sempre creduto che i difetti non esistano. Li vede come un qualcosa che si impone agli altri come per affermare la superiorità di una teorica linea di uguaglianza. Lei, uguale, non vuole esserlo a nessuno, e altrettanto pretende dalle sue stesse creazioni. Con passo sollecito fa ritorno al banco da lavoro.
Di rado il freddo è stato così severo nel laboratorio, ma Elisabetta non sembra sentirne l’offesa, come se per scaldarla fosse sufficiente l’ardore di quel nuovo progetto su cui da settembre riversa una passione uterina, lei che madre ha scelto di non essere: una nuova linea di abiti. Li ha visti essenziali, quasi di design, forse meno fatati rispetto alle minuziose sontuosità di quelli da sposa o da sera che da anni le sue mani attente confezionano.
Ma nel suo pensarli più nudi, Elisabetta ha immaginato per loro anche la capacità di schiudersi per un ventaglio di taglie e di reddito ampi, senza per questo perder nulla in poesia e qualità. Non li vorrebbe vedere addosso solo alle armonie degli arti di alcune donne fuso, ritte in passerella. Ci tiene davvero che quella nuova linea esalti le linee di qualunque corpo di donna che vorrà vestirli. E alcuni sono persino già pronti, premurosamente riposti su busti muti di manichini senza volto.
Ha studiato una scala di colori che va dall’avorio chiaro al blu notte, dal nocciola al rosso. Il pervinca è un’idea nuova, una delle tantissime che si susseguono in questi giorni di febbre creativa.
Un fervore che non frena il lavoro neppure a tarda notte, quando Elisabetta rincasa dal laboratorio nel profondo buio delle notti dicembrine di Sassari, luogo di vita e sentimento: nonostante anche Milano l’abbia accolta con il consenso che si riserva agli astri e sia la sua vetrina internazionale, Elisabetta non ne ha fatto sua dimora quotidiana.
La linea si chiama Crisalide. Il nome, lei lo sapeva nitido sin da subito, a dispetto del variare delle esigenze date dal lavoro concreto.
Ne ama l’entità sonora e lo sente respirare con lei: d’altronde, la sua vita non è forse quel personale, inafferrabile procedere di lei che si spezza da una crisalide all’altra per rifiorire progressivamente poi, di volo in volo? A sette anni, Elisabetta vedeva sé stessa con un cavalletto e una tela: i pennelli di martora e le tempere a olio della Maimeri regalatele dal nonno custodivano un fascino pari a quello dei tesori dei relitti di certe navi corsare. Il viso latteo della sua adolescenza profilava già la luce di una grande crisalide, un’ambizione che trascendeva le mura blande del liceo artistico cagliaritano, mentre sognava l’Accademia delle Belle Arti a Sassari, dove, finiti gli studi, il corallo dei capelli pieni e composti era un punto fulgido e assiduo sul marciapiede gremito, mentre disegnava per strada. Per poi invece scoprire, qualche anno dopo, che la farfalla della pittura strascicasse le ali ormai pesanti: a Elisabetta l’essere pittrice non bastava più.
I ritmi sfiancanti degli incarichi lavorativi annegavano inesorabilmente la sua passione creativa, a favore di un’accelerazione meccanica che le sclerotizzava ogni fantasia. Una nuova crisalide, però, fremeva. Incalzava sempre più l’eco di qualche memoria propria della bambina che abitava in lei, quando la nonna le cedeva uncinetto e ferri, lasciandola libera di inventare punti. Li evocò di nuovo tutti, quei punti, a partire da alcuni reietti sacchi di iuta, che trasmutarono in altrettante, squisitissime borse.
Così, ogni sera Elisabetta trovava, nel saggiare i tessuti che andava scrupolosamente cercando come un segugio guidato da solo istinto fatale, il conforto e l’esortazione al creare che sentiva mancarle da tempo. Da allora, con intramontabile dedizione, il cielo di ogni sua mattina si tinge del ricamo del giorno. Elisabetta fa dell’eleganza il vivere: è il suo quotidiano ostinarsi a non abdicare alla propria arte in quanto mestiere, a costo di correre il rischio di rimanere impigliata nell’amore per i suoi stessi veli, come la più brillante delle Isadora Duncan. E poi, dopo ennesima muta, rinascere novizia.
Che meraviglia