di OMAR ONNIS
Il 6 settembre del 1995 moriva Sergio Atzeni, ghermito da un mare amato ma inevitabilmente insensibile.
Mi aspettavo che, nella ricorrenza del quarto di secolo da quella tragica fine, la sua figura venisse ricordata con più enfasi, più diffusione e anche con maggiore acribia critica rispetto al solito. E magari non solo in Sardegna.
Qualcosa c’è stato, qualche articolo, qualche uscita editoriale. In Sardegna. In Italia non mi risulta niente (ma sono pronto a ricredermi, davanti alla prova del contrario).
Sergio Atzeni costituisce un problema insolubile per i più. Non che io voglia vantare una maggiore o esclusiva comprensione della sua parabola creativa e intellettuale, sia chiaro. Ma mi pare di intravvedere un nodo mai sciolto che la sua figura rappresenta molto bene e che nessuno ha davvero voglia di sciogliere. Perché sciogliendolo si dovrebbero portare allo scoperto le proprie cornici concettuali e i propri schemi ideologici (cosa che a pochi piace fare) e ci si dovrebbe arrendere davanti all’impossibilità di ingabbiare la complessità.
Atzeni è prima di tutto un autore inattuale, anche nel senso filosofico in cui lo diceva di sé Nietzsche. Nato troppo tardi o troppo presto, morto senz’altro nel momento sbagliato.
Questa sua condizione anagrafica e diciamo pure antropologica ne fa una figura difficilissima da inquadrare in pochi tratti. Essendo vissuto a cavallo di epoche differenti, in un momento complicato di passaggio culturale e politico, porta con sé tutte le contraddizioni dei suoi anni e anche una evidente nota di malinconica consapevolezza.
La consapevolezza riguarda essenzialmente la fine storica di robusti punti di riferimento politici e culturali, ormai ridotti a feticci e a vuoti stereotipi, ma anche la necessità di trovarne altri.
Ed è malinconica perché è comunque una sorta di lutto. Non solo riguardo alla sua esperienza politica come militante comunista (nel senso che questa etichetta poteva avere sul finire degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta del XX secolo in Sardegna), ma anche verso la sua relazione con la Sardegna medesima.
Una Sardegna che va persa per poter essere ritrovata, sembra insegnarci la vita stessa di Atzeni. Cosa che moltissimi – forse la maggior parte – dei sardi della diaspora sono perfettamente in grado di comprendere. Ma, appunto, anche questo una sorta di lutto.
La consapevolezza di Atzeni riguarda fondamentalmente la propria appartenenza stratificata, la propria identificazione personale dentro un più ampio e articolato processo di costruzione identitaria collettiva. Non a caso aveva vissuto in pieno gli anni dell’emersione dell’indipendentismo contemporaneo, del “vento sardista”, con tutto ciò che quei fatti e soprattutto i loro esiti fallimentari potevano suscitare in una mente attenta e in costante ricerca.
Su questo aspetto mi sembra che si concentri il groviglio più intricato della matassa atzeniana. Eletto negli anni, dopo la sua morte, quasi a profeta dell’indipendentismo, o comunque di una visione del mondo sardo-centrica, Atzeni è stato costantemente rivendicato, in senso opposto, dalla critica accademica e dalla politica sardo-italiana (la politica fatta in Sardegna dentro organizzazioni italiane) come esempio di anti-indipendentismo.
Entrambi gli schemi sono inapplicabili, sic et simpliciter, ad Atzeni, se stiamo a ciò che egli stesso scrisse e testimoniò. La sua potente carica narrativa deve la sua forza alla sua natura meticcia, “creola”, non subita né meccanicamente ostentata, ma vissuta come una condizione storica a cui non ci si può sottrarre e anzi esaltata come ricchezza.
Nel famoso articolo – quasi sempre malamente citato – “Nazione o narrazione”, Atzeni dimostra come sia complicato aderire a una forma elementare di identità, nella Sardegna contemporanea. Chiarisce come sia inevitabile, per un sardo di oggi minimamente consapevole, accettare l’ibridazione culturale e tutto il portato della nostra storia complicata.
Il passaggio in cui egli rivendica il proprio meticciato culturale viene solitamente usato come “arma fine di mondo” da chi detesta veder accostare Atzeni a una sensibilità indipendentista e/o nazionalista.
Il fatto di definirsi “sardo, italiano ed europeo” (ma con lunghe e dettagliate puntualizzazioni, che di solito vengono omesse) sembrerebbe una negazione di qualsiasi simpatia di Atzeni per rivendicazioni politiche orientate all’autodeterminazione democratica. Onestamente, mi sembra una lettura quanto meno parziale, se non del tutto errata. Anche ammettendo la buona fede, è evidente che si tratta di un’interpretazione capziosa e persino scorretta nei confronti di Atzeni medesimo. Che in realtà dice cose molto chiare, benché complesse.
Atzeni rivendica la propria appartenenza profonda alla Sardegna e alla sua storia, facendone il nucleo vitale delle propria condizione umana. Riconosce la propria italianizzazione culturale (la cultura dei “colonizzatori”, la definisce), senza negare l’evidenza. Fa rientrare nel quadro l’appartenenza ulteriore alla cultura e alla storia europee, sottolineandone gli aspetti egemonici e tutt’altro che pacifici verso le altre culture.
È una sorta di auto-analisi onesta e realistica, a cui c’è poco da aggiungere e verso cui c’è poco da obiettare. Niente però che ci indichi un orientamento politico definito, se non forse nel senso di una rivendicazione della propria appartenenza sarda e di condanna dei processi coloniali e di qualsiasi tentativo di semplificazione etno-centrica, di chiusura identitaria, di gerarchie razziali. Questo brano di Atzeni ha contribuito negli anni a renderlo indigesto a tutti coloro che vorrebbero incastrarlo dentro un’etichetta politica schematica ed esclusiva.
Pur essendo stato tirato in ballo o chiamato a sostegno di diversi orientamenti politici (ricordiamo con disgusto il suo coinvolgimento postumo in una campagna elettorale per il comune di Cagliari di una decina di anni fa), la sua figura, la sua testimonianza ideale e la sua stessa opera non autorizzano nessuno a rivendicarlo esclusivamente alla propria parte.
La natura meticcia e inattuale di Atzeni non ne fa comunque un autore difficile o anti-popolare. Tutt’altro. Atzeni è molto amato in Sardegna, probabilmente anche in virtù di questa sua intrinseca complessità, che lo fa apprezzare a sensibilità diverse, ognuna dal proprio punto di vista.
E tuttavia, per i lettori e soprattutto i critici e gli accademici italiani, Atzeni rimane un enigma. Chi lo legge di solito lo apprezza. Posso testimoniare della sorpresa di lettori italiani, anche particolarmente avvertiti, che, piacevolmente colpiti da qualche sua opera, non si capacitano di non averne mai sentito parlare prima.
Non è un autore di grido, Atzeni, né un punto di riferimento per gli addetti ai lavori. Sembra essere passato sulla terra *troppo* leggero. Ma questo evidentemente non dipende dalla qualità della sua scrittura e dalla bellezza dei suoi libri.
Dipende invece precisamente dalla sua difficile inquadrabilità nei soliti schemi stantii della critica letteraria italica. La stessa che liquida ancora oggi Grazia Deledda come autrice “regionale” e un po’ naïve (con costanti e non sempre eleganti ironie sul premio Nobel assegnatole).
Atzeni è un autore di livello internazionale, con una forza espressiva e letteraria unica. È anche un autore che fa parte a tutti gli effetti del canone letterario nazionale sardo, senza che le due cose siano in contraddizione (come appunto sentiva egli stesso). Fa parte anche della letteratura italiana (o in italiano), ma qui con qualche necessaria puntualizzazione. Come egli stesso chiariva, si tratta di un’appartenenza linguistica e culturale non esclusiva e sempre esposta alle ibridazioni. Basterebbe riconoscerlo e accettarlo. Eppure, in Italia si fa ancora fatica a inquadrarne la poetica e i contenuti. Un pezzo di qualche anno fa uscito sulla rivista “Il Reportage” e ripreso su “Minima&Moralia” nel 2017 è abbastanza esemplificativo di questa difficoltà.
Scritto con evidente e sana curiosità, tradisce però fin dall’inizio e anzi fin dal titolo (Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni) uno sguardo bonario verso la misteriosa diversità di una terra sempre vista sotto la lente dell’esotismo, del permanentismo, della fascinazione per il barbarico e l’arcaico, dunque, proprio per questo, eminentemente “coloniale”.
Un approccio che avrebbe forse fatto sorridere, o magari incazzare, il Sergio Atzeni di Raccontar fole.
La relazione con i luoghi, le persone, lo stesso cibo (con gli inevitabili strafalcioni linguistici) è espressa con i toni della scoperta, della sorpresa. Un mistero che nemmeno le risposte dei sardi e delle sarde interpellati/e sembrano chiarire. Forse perché cercare di chiarirlo, anche a se stessi/e, rischia di costringere a ripensamenti e a rinnegamenti indesiderati.
Così suona sorprendente a chi scrive l’articolo, e anche forse a chi lo legge, che qualcuno consideri come opera migliore di Atzeni Bellas mariposas, il suo testo più meticcio, meno “italiano”. Giudizio che personalmente condivido, per il poco che vale. Il mistero di Sergio Atzeni, emerso dalla sua isola magica, resta tale e caso mai può essere parzialmente – e forse solo apparentemente – sciolto nel suo luogo di “esilio”, Torino. Lo stesso luogo del disterru di Gramsci.
E invece no, il mistero si infittisce e si annoda su se stesso. Come è giusto che sia, per un autore che non aveva alcuna intenzione di essere rinchiuso dentro una facile classificazione e che ha rivendicato costantemente i diritti della libertà creativa e intellettuale, senza scendere a compromessi.
Oltre ai testi scritti – articoli o libri che siano* – ad Atzeni negli anni sono state dedicate performance teatrali, opere artistiche e cinematografiche, comprese le trasposizioni dei suoi romanzi. È il segnale che la sua opera ha lasciato un segno più profondo di quel che si potrebbe pensare e continua ad essere di ispirazione per altri.
Tra quelle cinematografiche ne richiamo due, di taglio celebrativo e documentaristico, forse poco note: Sergio Atzeni, scrittore, cortometraggio di Peter Marcias (2005), e soprattutto Madre acqua – frammenti di vita di Sergio Atzeni, di Daniele Atzeni (2015).
Sui tentativi di codificazione e classificazione, o di più o meno discutibile appropriazione politica, alla fin fine deve sempre prevalere l’opera in sé e il godimento estetico e intellettuale che essa può offrire. In questo senso, la prima e più sana cosa che si dovrebbe fare con Sergio Atzeni è leggerlo. Che la sua lettura induca riflessioni e sollevi problemi, anche in termini auto-analitici, di indole letteraria o politica, è solo un’ulteriore connotazione positiva del suo lascito.
Quel che si può affermare con una certa, prudente certezza è che, se non altro in ambito letterario sardo, c’è un “prima” e un “dopo” Sergio Atzeni. Il “dopo”, però, forse non è ancora del tutto arrivato. È un “dopo” in via di definizione, come è inevitabile che sia per un autore “inattuale”, non legato a mode stagionali o a entusiasmi superficiali, che sembra parlare molto più al nostro presente che al suo. E forse al nostro futuro.
Al di là del senso di perdita e della stessa frustrante curiosità per quel che ancora sarebbe potuto essere, è giusto dunque ricordare ancora una volta, in questi giorni, la figura e l’opera di Sergio Atzeni, restituendo ad entrambe la complessità e la sfuggevole profondità che le caratterizzano, consegnandole agli anni a venire come una grande risorsa intellettuale di una Sardegna non chiusa su se stessa, non meramente rivendicativa, bensì cosciente di sé e della sua relazione complicata ma sempre bidirezionale col mondo.
*Indico almeno due titoli di libri dedicati a Sergio Atzeni, distanti tra loro sia cronologicamente sia come impostazione e contenuto:
– Giuseppe Marci, Sergio Atzeni: a lonely man, Cagliari, CUEC, 1999
– Franciscu Sedda, Il sogno del falco. Il codice nascosto nell’opera di Sergio Atzeni, Cagliari, Arkadia, 2020
Segnalo anche il video-ricordo che alcuni autori sardi, convocati da Lìberos, registrarono nel 2015.
Bellissimo