di MICHELA GIRARDI
Susanna Mameli, 52enne drammaturga ogliastrina, ha di recente vinto il premio per la miglior drammaturgia con lo spettacolo “S’Accabadora” al Fringe Festival di Roma, rassegna dedicata allo spettacolo dal vivo. Questo riconoscimento si aggiunge ai numerosi altri ottenuti in trent’anni di lavoro, studio, intuizioni e progetti. Susanna, infatti, afferma di avere tre figli. Una di 10, uno di 16 e uno di 30. Quello che compie trent’anni è il figlio più grande e si chiama Teatro. A tutti e tre ha donato tutta sé stessa, trovando nella parola crescita la dimensione reale del suo procedere. Il suo Teatro è da sempre legato alla Sardegna, alla figura femminile e alla comunità. I progetti portati avanti nel tempo parlano per lei: laboratori, rassegne, associazioni, spettacoli di respiro internazionale, collaborazioni di grande rilievo, percorsi di formazione e offerta teatrale, prima in Ogliastra e poi a Cagliari. In questi ultimi tre decenni, da quella lontana laurea con lode in drammaturgia a Bologna, Susanna non si è mai fermata.
Il tuo teatro è da sempre legato alla Sardegna e in particolare alla figura femminile sarda: perché? In quali delle tue produzioni si è maggiormente presentata questa duplice caratteristica? Il mio teatro è legato alla figura femminile e alla Sardegna, sì. Il motivo è semplice: “l’immenso amore che ho provato e provo per mia madre” archetipo di figura femminile ieratica, arcaica, traccia tangibile del matriarcato resistente fino in epoca recente. Conoscendo Lei, non ho mancato di riconoscere e ammirare anche le sue compagne ancora operanti in una società tutta protesa a gettarsi fra le braccia del consumismo e liberismo più sfrenato. Una società che però faticava ad affrancarsi dalla miseria e da lacci culturali che la strangolavano nella corsa verso il futuro. Lì ho visto queste donne “comandare e dirigere” e con naturalezza amministrare il silenzio, il tempo, e anche la vita, senza tante smanie, anzi spesso con pochi cenni. Questa donna lavoratrice, missione, ossatura e lume della società, è paragonabile alla “Madre Courage” di brechtiana memoria, e tutti i testi che scrivo ospitano almeno una di queste donne che sfidano la vita per essere Vive. Tutte le donne che nascono dalla mia penna sono donne che fanno i conti con la loro struggente fragilità, ma poi accade in loro una lenta e potente metamorfosi, che le connette con una dimensione carsica e sotterranea della spiritualità femminile che le rende forti, coraggiose, sfidanti e le fa volare oltre gli schemi e i limiti che ciascuno si autoinfligge.
Parliamo, in particolare, dello spettacolo “S’Accabbadora”, che ha vinto il premio per la drammaturgia al Roma Fringe Festival 2020. Nel passato, era, come è noto e come raccontato in tanti libri e documentari, una fautrice tollerata di eutanasia. Nel tuo spettacolo, però, la rappresentazione di questa figura molto discussa non vuole offrire risposte superficiali a questioni morali ma dare corpo ed anima alla donna che vive dietro a quell’etichetta pesante da portare sulle spalle. Perché hai operato questa scelta? Quale donna hai voluto raccontare attraverso Antonia? Quali stereotipi gravitanti intorno al femminile hai cercato di scardinare? Il personaggio di Antonia che interpreta appunto il ruolo di Accabadora, colei che portava la “morte pietosa” ai malati terminali nelle comunità arcaiche della Sardegna, riveste nella mia immaginazione, il ruolo di “missionaria”, infatti il titolo del primo studio era: ”Antonia missionaria e accabadora”. Amo di lei, l’essere figura crepuscolare che si affaccia al sorgere della vita e al suo concludersi con la naturalezza del ciclo delle stagioni, o dell’incedere del giorno, nella comprensione profonda delle regole di questo gioco in cui è impossibile barare. Lei aiutava a nascere, era levatrice, e aiutava a morire quando la speranza aveva abbandonato la casa. Noi oggi abbiamo rimosso la morte dalle nostre vite. Non è sufficiente non parlare della Morte perché questa scompaia, l’unico sforzo che possiamo fare è quello di sconfiggere la morte con l’amore: infatti l’opposto della morte non è la vita, ma l’Amore. Questo incarna nella mia visione, il personaggio di Antonia la lotta tra Amore e Morte. La sua storia e il suo personaggio si arricchiscono però di molti particolari, e il peso che porta Antonia sotto il suo scialle, è quello portato in silenzio da molte donne in tutto il mondo, un peso che desidero con tutte le mie forze alleviare e annullare: quello della violenza sulle donne. Violenza sul corpo e nella mente. Piuttosto che scardinare uno stereotipo ho proprio “eletto” uno stereotipo a guida di questo processo “quello della famiglia per bene” e l’ho messo sotto la lente d’ingrandimento, per far intravvedere quanto la violenza in famiglia sia diffusa, persistente, insistente, al di sotto di una patina di snervante normalità, vite intere vengono soffocate da semplici gesti quotidiani, e i sogni soccombono, i passi rallentano, si smetterebbe di respirare se si avesse il potere di farlo. Quindi, l’immagine e lo stereotipo “della famiglia per bene” è la gabbia luccicante, la prigione sicura, in cui la società passata e attuale amministra le sorti e le vite delle donne e degli uomini. Tutto questo, sappiamo, ci viene dalla notte dei tempi e non riusciamo ancora oggi ad emanciparci da questa prigione. Purtroppo spesso è troppo tardi e la violenza è eclatante: “bruciata viva” “strangolata e fatta a pezzi” ma attorno alle violenze, a queste vite rubate, c’è una enorme “distrazione” mediatica che, spesso non aiuta la causa delle donne e a salvare le loro vite. Il punto è prevenire, creare dal basso la cultura della parità di genere, del rispetto della donna e, mi vien da dire, soprattutto fra le donne stesse.
Hai dedicato il premio ottenuto per “S’Accabbadora” ai tuoi compagni di viaggio. Quanto è importante fare squadra? Fondamentale fare squadra. E’ stato un percorso che non dimenticherò mai, perché ho respirato quasi per la prima volta la sensazione di un gruppo totalmente dedicato a dare il meglio in ogni circostanza. Abbiamo lavorato in primavera e in estate, infine il debutto in Germania in autunno che ci ha portato in tre incantevoli città Heidelberg, Norimberga, Stoccarda, con una accoglienza e seguito straordinari. In tutto questo tempo, tutti hanno dato sempre il massimo senza riserve e, pur nella fatica, ci siamo divertiti un mondo, e ogni situazione o adattamento che dovevamo fare era una sfida che studiavamo a fondo senza accontentarci di soluzioni facili o lasciare al caso. Tutto questo si è espresso ancora di più quando per gioco ho chiesto a tutti se volevano partecipare al Fringe a gennaio 2020. Non speravo assolutamente nella selezione, anche perché il video che inviammo era della “prova generale”. Invece ci hanno coinvolto con ben due spettacoli, Accabadora e A quel Paese – un dramma e una commedia – entrambe premiati – Ad a quel paese – scritto e diretto da Francesco Civile in collaborazione con Daniel Dwerryhouse è andato il premio come Migliore Spirito Fringe 2020. Quindi posso dire che puoi avere le idee più belle, ma se non hai una squadra “innamorata” di quelle idee, non vai da nessuna parte.
Spesso si riflette sull’inadeguata istituzionalizzazione della figura della drammaturga, che in Italia non sembra ancora ben inquadrata nell’organico degli Stabili. Quanto pesa questa mancanza? E’ una professione attualmente più diffusa e riconosciuta nel ruolo dal mondo anglosassone. Inoltre, in Italia alcuni grandi teatri percepiscono la produzione di nuovi testi come qualcosa di superfluo, prediligono e danno priorità alla “messa in scena” e il lavoro drammaturgico viene svolto come adattamento scenico di un testo coinvolgendo più aspetti registici piuttosto che drammaturgici. Questa mancanza pesa nella misura in cui è poco diffusa, ci sono ovviamente esempi di connubi consacrati tra drammaturgia e teatro, uno per tutti Emma Dante, tuttavia la diffusione di questa buona pratica di scrivere nuovi testi per il teatro, non rappresenta un elemento propulsivo e nemmeno di innovazione nel teatro contemporaneo italiano.
Nel tuo campo, ti sei mai sentita presa meno sul serio o messa da parte in quanto donna? Mi piacerebbe dire che non è successo, ma non ha senso far finta che questo non sia accaduto o non abbia influito. Nonostante il 110 e lode e il bacio accademico guadagnati proprio all’università di Bologna con una tesi su Carmelo Bene, ho visto più volte i colleghi maschi essere ricevuti con più facilità ed essere coinvolti secondo logiche cameratesche più che di merito, ma questo è sempre stato per me uno stimolo a far meglio e a non lasciarmi intimidire, non arretrare. Allo stesso tempo è successo anche l’opposto, di essere presa in considerazione magari perché donna, e anche questo ha creato problemi che ho affrontato e risolto. Tuttavia, la maggior parte delle volte credo di essere stata accolta adeguatamente, anche grazie al fatto che sono volutamente rimasta un cane sciolto, al di fuori di qualsiasi logica di potere verticistico che potesse influire sulle mie scelte.
Cosa vuol dire per te essere femministi? Quali sono le battaglie che più di tutte oggi, meritano di essere portate avanti? Che ruolo hanno arte e cultura in quest’ottica? Essere femminista è fondamentale oggi perché siamo nell’epoca del negazionismo, delle fakenews, e le recentissime conquiste fatte dalle donne fino a tutti gli anni ottanta rischiano di essere disperse a favore di una identità distorta di femminilità promossa a più livelli comunicativi, dai mass media e dalla solita immagine della donna-prodotto-merce amplificata ora anche da certi testi di musica trap, in cui le donne sono ritratte in termini che non posso nemmeno ripetere. Penso alle giovani donne che sorridono e ammiccano senza rendersi conto di quanto quel patto comunicativo sarà costoso per loro e per le loro vite. Sento il dovere di comunicare loro, di far capire che le parole sono importantissime, che il linguaggio quotidiano è fondamentale per l’evoluzione della nostra civiltà. Le parole sono vive, hanno gambe, respirano, e il linguaggio ha la potenza di distruggere individui e comunità. Già nella Bibbia si diceva che “la parola ferisce più di una spada”. Quante persone si tolgono la vita per gli insulti di odiatori su Fb o su altri social. C’è un lavoro immenso da fare con i giovani e per i giovani, di entrambi i generi, ancora incapaci di capire lo straordinario potenziale di cui sono portatori, e purtroppo “navigano” velocemente ma non hanno idea di dove siano e dove stiano andando.
Il Piccolo Teatro dei Ciliegi. Un nome chechoviano per uno spazio teatrale, a Capoterra, che hai fortemente voluto. Cosa rappresenta per te? Come è nato? Le tue idee, hanno sentito il bisogno, a un certo punto, di trovare una casa e mettere “radici”? Questo nome mi piace moltissimo, adoro Chechov, e il Piccolo teatro dei Ciliegi è il luogo delle cose impossibili, dei sogni “insognabili”, dei percorsi senza segnaletica. In questo luogo ho voluto aprirmi alla ricerca a 360° dando alla mia comunità anche uno spazio per la condivisione di questo percorso di ricerca, di crescita e di formazione. La formazione s’intende sia per noi che siamo la compagnia che anima lo spazio, che per il pubblico. Da ormai cinque anni abbiamo una scuola di teatro, frequentata stabilmente da tutte le fasce di età, gli insegnanti sono esclusivamente professionisti qualificati da certificati accademici (non da amanti del teatro). Ho indetto anche le prime borse di studio soprattutto per ragazzi che hanno dato dimostrazione di voler seguire e per genitori che hanno anche tre figli iscritti ai corsi. Talvolta capita che negli “esiti a porte aperte” che facciamo a conclusione dell’anno, ci siano mezze famiglie in scena, con madri e figli nei diversi gruppi. La scuola di teatro è per me motivo di grande orgoglio e soddisfazione, ho visto cose straordinarie nascere dai più piccoli ai più grandi, e per questo ringrazio soprattutto Francesco Civile che mi accompagna in questo percorso.
Hai sempre raccontato delle storie fortemente connesse all’attualità e alle storture del presente: credi che il teatro civile possa realmente avere un impatto sulla società? Non sono in grado di misurare l’impatto che i contenuti del teatro civile hanno nella società, tuttavia sono certa che seppure in modo contenuto contribuiscano a creare un alveo culturale a cui le persone possano riferirsi. Intendo dire che una parte di noi si riconosce nei valori che vengono portati in scena, e questo fa sentire alle persone che questi valori che condividiamo hanno un peso, vale la pena lottare e insistere per la loro affermazione e condivisione. Non dimentichiamo di quanti straordinari passi avanti abbiamo fatto in tanti campi. Il teatro civile si pone l’obiettivo di consolidare i valori positivi e di non arretrare sulle conquiste fatte. In più, il teatro civile ti da la dimensione fisica di comunità, perché il teatro è sempre “dal vivo” e questo costituisce la cifra irrinunciabile del reale possibile.
Da quali necessità, da quali suggestioni nascono i tuoi testi? Quando sul palco metti in scena le donne, in che modo entri in contatto con le loro storie? Come ti documenti sulla loro vita, ad esempio? I miei testi nascono da un urlo interiore. Per esempio il testo che parla della violenza sulle donne dal titolo: “Volevo dirti” nasce dall’urgenza di voler agire e fare l’unica cosa che posso fare io per tentare di eliminare la violenza sulle donne. In ogni situazione in cui credo che sia necessario un cambiamento di rotta mi chiedo: “Cosa posso fare io per cambiare questa cosa?”. Sto molto attenta a non essere didascalica o pedagogica, mi interessa che lo spettatore ricavi da sé la strada per porsi domande concrete, domande più che risposte, capaci di creare una piccola crepa nella fissità dei pensieri, in cui possa penetrare la luce del dubbio o dell’eventualità. A volte uso la tecnica zen “se vuoi raddrizzare una cosa, storcila ancora di più” e in questo la “lente” dell’amore mi aiuta a scrivere i miei testi e dipanare un percorso che sia coinvolgente ma anche imprevisto. Anche questo testo nelle prime fasi di elaborazione è arrivato in finale in due premi Nazionali: Finalista Premio Nazionale Lago Gerundo 2016; Finalista al premio Nazionale CTAS Oltre parola, 2014. La storia di Maria, che racconto in “Volevo Dirti” è una storia terribilmente normale, talmente normale da rendere soffocante l’idea che la normalità, la nostra vita di tutti i giorni, possa essere fatta di questa assurda e violenta normalità. I personaggi sono sempre veritieri ma mai biografici o reali, la sfida è sempre quella di raccontare la storia delle storie, che racchiuda l’essenza del dialogo tra opposti in un contesto di contrasti caravaggeschi in cui a volte la Luce se non è la risposta, può essere la via d’uscita. Prima di lavorare su un testo, leggo molto e mi documento più che posso. Le fonti sono molteplici, oltre i libri, documentari a tema, la musica, e anche molte opere d’arte sia di pittura che di scultura mi aiutano a focalizzarmi sui processi profondi di sintesi dell’idea. Prendo molti appunti, e creo una sorta di cartella in cui inserisco di tutto. Poi, dopo un certo tempo, mi “dimentico” di tutto quello che ho studiato e comincio ad allevare un’idea, solitamente è quella principale su cui in seguito s’innesteranno le altre fino a creare la drammaturgia dello spettacolo. Poi godo di un altro immenso vantaggio, che è quello di poter tornare sul testo quando sto realizzando lo spettacolo. In questa fase ci può essere una rielaborazione anche profonda del testo, che come ho già detto, è vivo e vuole crescere.
Oggi che donna sei? Sei lontana dalla donna che avresti voluto ( o che vorresti oggi) essere? Lontana da quella che gli altri si aspettavano diventassi? Sono una donna realizzata, felice, grata, piena di sogni e progetti da realizzare, inclusa la lista di invitati per il mio 92esimo compleanno! Sono sempre rimasta in contatto con me stessa e con i bisogni e i valori fondamentali della mia vita. I valori sono stati la mia strada maestra in cui ho cercato di far convergere le mie aspirazioni artistiche. Infatti, io faccio teatro civile, teatro sociale. Le mie azioni artistiche hanno sempre la voglia e l’energia bambina di chi “vuole cambiare il mondo” seppure con la convinzione di farlo con estrema lentezza, ogni giorno solo un po’ di più. Quando ho fondato Anfiteatro Sud, 25 anni fa, avevo in mente due cose: l’anfiteatro rappresentava la comunità, la gente, i compagni di viaggio, il pubblico con cui avrei viaggiato, tratto ispirazione per la scrittura di spettacoli. E il Sud la direzione, non un luogo fisico in cui prima o poi arriverai, perché sarai sempre in cammino verso quella meta che è un luogo non convenzionale in cui riconvertire il tuo mondo in qualcosa di meglio. Anche qui, è importante “non quante cose fai, ma quanto amore metti nelle cose che fai”.
Nella tua vita professionale, legata al teatro fin dalla tenera età, hai avuto l’onore di incontrare dei veri e propri mostri sacri, come Carmelo Bene, Franca Rame, Dario Fo, Umberto Eco, Jerzij Grotowskij, Peter Brook. Quali sono gli incontri che ti hanno cambiato la vita in questo senso? Carmelo Bene è stato per me Maestro e riferimento poetico ed estetico. Da lui ho imparato il rigore legato al teatro, in particolare al suono e alla parola, al ritmo del fraseggio, alla scrittura di scena, a tutti gli aspetti tecnici e linguistici della scena teatrale, e moltissime altre cose ancora. Vederlo in scena, equivaleva ad essere rapiti dal turbine di immagini poetiche che era capace, lui solo, di suscitare. Ho avuto l’onore d’incontrarlo ventiquattro giorni prima della mia laurea, grazie a un mio caro amico scrittore che mi aveva corretto la bozza della tesi di laurea e mi diede il numero di telefono del Maestro. Prima della laurea trovai il coraggio di chiamarlo. Era sera, e mi rispose un medico (lui era già malato) che non voleva passarmelo. Ma sentivo che Lui chiedeva chi fosse al telefono, così dopo poco riuscii a parlarci. Dissi che ero una studentessa di drammaturgia e che avevo scritto la tesi su di Lui. Bene rispose: “Mi sembra il minimo che tu l’abbia fatta su di me, ci sono studenti in agraria che fanno la tesi su di me! Tu su chi pensavi di poter fare la tesi se non su Carmelo Bene?”. Dopo una breve chiacchierata mi invitò la sera seguente a casa sua. Quando arrivai di fronte a una piccola porta verde soffocata nell’edera, mi chiesi se mi trovavo nel posto giusto. Quando mi aprì la porta una luce dorata mi venne addosso. Ci incontrammo anche la sera successiva, e parlammo di tutto fuorché di teatro. Di pittura, di luce, di poesia, di cui è fatto il teatro. Io ho avuto la chiara sensazione di essermi laureata quelle due sere direttamente con Lui. Il giorno della tesi parlavo e parlavo, e quasi non ero li, perché tutto era già accaduto. Questo è stato un dono importante per la mia vita e la cosa straordinaria è che in quegli anni Bologna era una vera fucina culturale: per caso mi trovavo a sedere per un seminario a due passi da Giorgio Gaber con la chitarra in mano, incontravo e seguivo in una fabbrica abbandonata e occupata Leo De Berardinis con cui abbiamo fatto uno studio sulle “Le rane” di Aristofane e sul coro greco. I seminari di Dario Fo e Franca Rame, gli incontri con Jerzj Grotowskj e Peter Brook al teatro Storchi di Modena e la proiezione di 9 ore del Mahbharata di P. Brook, i seminari e gli incontri di formazione con la Societas Raffaello Sanzio ancor prima che diventasse quello che è adesso, Marco Baliani e gli studi su Antigone fatti in tutte le piazze della città incluso piazza Maggiore. Le lezioni sulla “lingua perfetta” condotte da Umberto Eco, il “Prometeo incatenato” realizzato da Judith Malina del Living Theatre con noi studenti, l’incontro con Alessandro Fersen al teatro la Soffitta e molti altri. La cosa che mi colpisce è che io allora, non avevo minimamente idea di quanto fossero importanti i personaggi che ho citato. Ho imparato a valutare retroattivamente anche questo percorso di cui ho fatto esperienza. Negli anni sono ritornata sui miei passi e ho raccolto quanto avevo lasciato appeso all’ entusiasmo. Ho studiato, approfondito e proseguito il mio cammino per dare forma alla mia poetica e alla mia estetica personale. E i miei maestri sono stati fondamentali.
Un’altra cifra stilistica del tuo fare teatro è l’attenzione che hai sempre riservato, in questi trent’anni, ai ragazzi. Tra workshop, festival e laboratori, infatti, hai sempre investito tanto sui giovani, hai sempre cercato di attirarli verso il tuo mondo. Perché? I tuoi figli hanno ereditato il tuo talento o anche il semplice interesse per il teatro o ciò che vi gravita intorno? I bambini e i ragazzi sono coloro a cui ho scelto di dedicarmi, perché ritengo io debba restituire quanto ho avuto in dono nella mia vita, mostrare con le azioni la mia gratitudine. Nella nostra esistenza, abbiamo istruzioni e nozioni per tutto ma quasi nulla che ci insegni a vivere. Molte esistenze vengono condotte all’ombra della consapevolezza, e spesso si arriva alla morte senza nemmeno essersi chiesti, che cosa si è venuti a fare al mondo. Questo accade più frequentemente di quanto non si pensi. Il teatro e le sue dinamiche sono una palestra per le emozioni e per allenare il cervello; ti permette di entrare nella dinamica del biofeedback, ossia a crescere analizzando, imparando, e riconoscendo le proprie risposte interne, e riorganizzandole in funzione di una crescita consapevole. Altro che sogni a teatro! A teatro ci si allena a essere consapevoli, concentrati, rilassati, leggeri e pieni di soddisfazione. Il teatro dovrebbe essere materia scolastica: t’insegna a parlare e esprimere punti di vista di fronte ad un auditorio, dischiude i tuoi talenti e le tue peculiarità, ti mette a contatto con il tuo sé profondo, ti mette in relazione concreta con l’altro, e fa della conoscenza una esperienza che non dimenticherai più. Attualmente il sistema scolastico è prevalentemente nozionistico, compilativo, e poco sperimentale, non consente la profondità dell’esperienza di apprendimento, non permette di sviluppare l’attitudine di “imparare a imparare”. Gli allievi dovrebbero essere allevati come scienziati, volti all’osservazione e all’analisi dei dati che raccolgono, formulare ipotesi progetti e andare a realizzarli. Sarò una sognatrice, ma la mia scuola vorrei non avesse pareti e al posto degli insegnanti vorrei dei facilitatori, degli educatori che ti aiutano a capire chi sei e quanto grande puoi essere. Si, sono una sognatrice!
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Mi piacerebbe poter far conoscere lo spettacolo di s’Accabadora in Sardegna, dopo il debutto tedesco e le recite romane è arrivato il Covid-19 e siamo rimaste congelate nelle tante date di recita che avevamo già in programma di fare in tutta l’isola. Questo spettacolo non smette di entusiasmarmi, oltre le splendide attrici che ho in scena, Marta Proietti, Annagaia Marchioro; Elisa Pistis, il lavoro si avvale del prezioso contributo di Videomapping sulle opere incisorie del Maestro Mario Delitala, realizzato da quello che per me è un mito del Mapping internazionale, Michele Pusceddu affiancato da Francesco Diana. Tutto questo, ha il privilegio delle “bacianti” musiche di Paolo Fresu che lambiscono questo spettacolo come il mare creando la mia isola: la Sardegna. Quindi nell’immediato vorrei proporre alle amministrazioni comunali, alle compagnie teatrali di riferimento di condividere questo bel viaggio con Accabadora. Nel lungo periodo voglio rafforzare il progetto di alta formazione culturale già cominciato al Piccolo Teatro dei Ciliegi attraverso residenze artistiche internazionali, nazionali, regionali dando sempre più forza alla dimensione di condivisione tra artisti e loro pubblico e la comunità tutta. Il Teatro è uno spazio culturale e come un cuore deve battere e inviare e ricevere segnali coinvolgendo a ogni livello possibile la comunità intorno. Gli spettacoli, le video installazioni, i progetti artistici misti, i legami tra noi e gli altri, tra noi e gli animali, tra noi e l’ambiente, saranno temi con cui ho intenzione di confrontarmi frontalmente attraverso il linguaggio dell’arte, in ogni caso sempre trasformando i limiti in risorse, cosa che a Teatro rappresenta la normalità.
Rileggere questa chiacchierata con Michela Girardi mi fa pensare che è il Manifesto del mio Teatro, qui c’è proprio tutto ciò che sento, penso, e di cui sento ancora la necessità.
Bella.