di GIAN GIACOMO ORTU
Il primo a porsi il problema della formazione giuridica di Emilio Lussu fu Paolo Petta, quarant’anni fa, in occasione di un convegno cagliaritano sulla sua esperienza politica. L’apertura tematica di Petta non ebbe però seguito, neppure nelle importanti monografie dedicate a Lussu da Manlio Brigaglia e Giuseppe Fiori. Lo scarso interesse per il Lussu giurista era anche conseguenza di un certo misconoscimento del contributo originale di pensiero che Emilio Lussu aveva dato nella sua militanza nel movimento sardista, nella lotta antifascista e nell’impegno socialista.
Uomo e politico d’azione, sotto il profilo teorico Lussu per molti storici fu sempre tributario di qualcuno, ora di Gaetano Salvemini, ora di Camillo Bellieni, ora di Carlo Rosselli e di quanti altri avevano condiviso con lui, al massimo livello, un progetto politico. Certo, non tutti gli studiosi di Lussu si sono ritrovati in questo stereotipo interpretativo, ma era comunque mancato l’intuito di andare a rivedere, attraverso le fonti, l’intero suo percorso formativo.
È quanto fa invece Italo Birocchi in questa sua superba monografia su “Emilio Lussu giurista” (Editoriale Scientifica), capace di fondere in una ricostruzione coerente e unitaria la storia generale (della Sardegna e dell’Italia), la storia del diritto e della giurisprudenza (italiana e non solo), la storia di Lussu (politico e giurista). Ben sapevamo che l’esperienza della guerra fu fondamentale per la maturazione dell’orientamento democratico e popolare di Lussu, ma Birocchi, alla luce di una maggiore conoscenza della sua formazione giovanile, ci mostra come egli fosse arrivato alla guerra già provvisto di quei filtri culturali (umanistici e giuridici) che gli consentirono di non subirla e di viverla come esperienza umana, sociale e politica. E può proporci allora anche una rivisitazione del Lussu “combattente” di grande suggestione: l’eroe Lussu (chi può dubitare che lo fosse?) si portava al fronte, incorporato, il diritto, ed era questo che lo rendeva atto non solo a dare ordini, ma anche a “fare ordine”, che era la cosa di cui i soldati avevano assoluto bisogno nelle situazioni caotiche ed estreme in cui erano messi da comandi insensati e irresponsabili.
È una rilettura del mito del “capitano” Lussu che può offrire più di uno spunto a una nuova e più intensa lettura di “Un anno sull’Altipiano”. Quando Lussu rientrò dalla guerra intraprese la professione di avvocato, e non perché avesse una laurea in Legge, ma perché la sua prima formazione ad Armungia, i successivi studi giuridici e la stessa esperienza militare gli avevano fatto maturare un sentimento forte del diritto e della giustizia. Non fu avvocato per caso, dunque, e neppure a latere della militanza politica, ma per una verace vocazione alla professione forense. A prova di ciò Birocchi allega la ricchezza della biblioteca giuridica (recentemente studiata da Giovanna Granata) che Lussu si costruì dal nulla in pochi anni, tra il 1920 e il 1926, quando dovette lasciare l’avvocatura e la Sardegna È ben noto che Lussu ha conservato sempre un rapporto profondo con Armungia, il suo luogo d’origine, ma Birocchi ci offre anche l’immagine intrigante, negli anni dell’Università, di un Lussu “cagliaritano”, attore sulla scena di una facoltà di provincia e di una città sempre di provincia, ma pulsante di ambizioni di modernità.
Nonostante la discontinuità della docenza e altri profili critici, la facoltà giuridica di Cagliari poté comunque offrire a Lussu stimoli d’interesse e di apprendimento talora importanti, come nel caso della filosofia del diritto di Gioele Solari, della statistica di Corrado Gini, dell’economia politica di Marco Fanno. Questa medesima facoltà fungeva inoltre da incubatrice di un nuovo personale politico, quel medesimo con cui Lussu avrebbe avuto a che fare per molti anni, su fronte ora amico ora avverso: Mauro Angioni, Umberto Cao, Egidio Pilia, Giuseppe Pazzaglia tra i tanti, di cui Birocchi non trascura di offrirci una caratterizzazione civile, professionale e culturale.
Un ampio e giusto rilievo Birocchi attribuisce al processo che Lussu dovette affrontare per l’uccisione, il 31 ottobre 1926, dell’aggressore Battista Porrà e che lo vide assolto per legittima difesa, e all’altro procedimento che portò alla sua espulsione dall’ordine degli avvocati. In entrambi i casi fu, di fatto, lo stesso Lussu a istruire e condurre la propria difesa, e sempre sulla base di argomenti giuridici, pur nella consapevolezza delle finzioni di quella legalità fascista che molti giuristi hanno accreditato come “stato di diritto” perché comunque incardinata sulla legislazione. E cioè su quelle leggi “fascistissime” che nel 1926 cancellavano ogni libertà politica e civile, istituendo una legalità non differente, come ha scritto Gustavo Zagrebelsky nel suo «Diritto allo specchio», da quella imposta da una banda di gangster.
Seppure Lussu sia sempre nel fuoco della sua ricostruzione, il libro di Italo Birocchi non è soltanto uno studio su lui come su una individualità esemplare, ma è anche una storia del diritto e della giurisprudenza italiani negli anni in cui erano messi alla prova della costruzione di un regime totalitario, dello «stato di eccezione», per ricordare Carl Schmitt, elevato a sistema. Rispetto al quale l’autonomismo e il federalismo di Emilio Lussu rappresentarono un’alternativa assoluta, tanto etica che politica.
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