di Massimiliano Perlato
È nato quasi per caso, pian piano, e poi un bel giorno di quattro anni fa ho concepito la “cornice” letteraria che dà a “Sardignolo”, il mio ultimo lavoro letterario, la sua forma attuale, ovvero quella del carteggio di un sardo emigrato di lungo corso che racconta la sua idea di Sardegna ad un giovane canadese d’origini sarde che prova a fare il percorso inverso.
Sono le parole di Alberto Mario DeLogu, classe 1961, che vive attualmente a Montreal in Canada, nel presentare la sua opera letteraria.
È un epistolario che mi dà l’estro per affrontare argomenti che mi stanno a cuore e nelle viscere: sa limba sarda, il mito della terra matrigna, quello dell’ospitalità, quello della bontà dei prodotti, la nuova generazione dei finto-manager, l’università, e per finire l’emigrazione. Su tutto cerco di mantenere uno sguardo leggero ed ironico, una sana “epoké” greca, cioè una sospensione del giudizio. I personaggi che più amo sono quelli genuinamente e onestamente sardi, di quella Sardegna che ormai vive sepolta e tiranneggiata dall’altra Sardegna, quella urbana, del politichese e del managerese, delle cravatte e dei SUV. È un libro che ho scritto per i sardi “di dentro” e per quelli “di fuori”, come direbbe Giacomo Mameli. È un libro che devo in primis all’amico e collega scrittore Nello Rubattu, un vero maieuta letterario che mi ha spronato e istigato a continuare fino alla fine. Ed in secundis lo devo alla sagacia dell’editore Angelica, un piccolo editore sardo di gran qualità che ha dedicato un’intera collana dal titolo “Sola Andata” agli scrittori emigrati e ai loro temi. Come tutti i piccoli editori, anche Angelica deve subire purtroppo lo strapotere dei grandi dell’editoria, e questo lo si sconta soprattutto nella distribuzione, che è limitata e difficoltosa. Ma i lettori possono fare molto per dare uno scossone: se vogliono “Sardignolo”, lo chiedano e lo ordinino in libreria, oppure su Amazon.it. Come dicono da queste parti, “don’t take no for an answer”, non bisogna accettare un No come risposta!
Alberto Mario DeLogu è così: diretto, schietto e senza fronzoli. Racconta molto di sé in questa intervista: nato a Sassari, di famiglia medio-borghese. Il padre medico di famiglia a Ittiri per quarant’anni, nonché fondatore e presidente del sindacato sardo dei medici di famiglia, madre insegnante elementare, sassarese d’origini bosane e galluresi. Ha frequentato il liceo classico Azuni negli anni ’70 con insegnanti come Paola Pittalis e Pierpaolo Conconi, con il quale ha fondato la compagnia teatrale La Botte e il Cilindro. Un paio d’anni dopo la laurea in agraria ha lasciato la Sardegna al seguito del prof. Paolo De Castro per andare a lavorare al centro studi Nomisma di Bologna, diretto a quel tempo da Romano Prodi. Ha lasciato Bologna nel ‘93 per andare a studiare economia all’Università della California, tre anni di master conclusi con una tesi sul mercato mondiale del Pecorino Romano. Poi il ritorno in Sardegna per prender servizio, giustappunto, come direttore del Consorzio del Pecorino Romano.
La “reimmersione” sarda è stata istruttiva, anche se non sempre in senso positivo, e dopo un anno e mezzo ho preferito fare le valigie alla volta del Nordamerica, destinazione Canada, che a quel tempo, e ancora oggi, cercava immigrati qualificati. In Canada non avevo parenti né amici né lavoro, e pochi risparmi. Ho cominciato da zero, facendo anche dei mestieri raccogliticci, poi pian piano, come accade agli emigrati in paesi aperti e accoglienti, ho cominciato a trovare il lavoro giusto per le mie competenze, e da lì è cominciata una carriera nel commercio internazionale e nel marketing agroalimentare.
Nel 2000 hai ceduto alla nostalgia e hai riprovato a tornare in Sardegna, ma ancora una volta il “gran ritorno” non ha funzionato…
Ho sbattuto il muso sugli stessi spigoli che avevo urtato cinque anni prima. Questa volta sono andato via senza guardarmi alle spalle. Sono ridiventato quindi canadese, complice anche una gentile e minuta funzionaria dell’ufficio immigrazione dell’aeroporto di Toronto, di etnia indiana o pakistana, la quale, quando le ho dato i documenti e comunicato la mia intenzione di rinunciare alla residenza in Canada, mi ha guardato a lungo, poi mi ha restituito i documenti e mi ha risposto: “Tieni, ripensaci ancora. Ti lascio entrare. Vedrai, forse questo paese ha ancora bisogno di te. Ripensaci”. Ancora mi commuovo a raccontare quest’episodio. Ricordo di aver pensato: un paese che mi accoglie in questo modo è un paese che mi merita. E da quel giorno sento un leggero fremito d’orgoglio ogni volta che vedo sventolare la foglia d’acero.
DeLogu in Canada ha lavorato in varie aziende del settore alimentare, prima in Ontario e poi in Québec. Dopo alcuni anni di lavoro dipendente ha deciso di tornare ad occuparsi di un’azienda che aveva fondato alcuni anni fa e che ha intenzione di rilanciare nel settore del brokeraggio e del commercio internazionale delle derrate.
Lavoro con clienti e fornitori di tutto il mondo, parlo cinque-sei lingue, mi alzo presto la mattina per lavorare con gli europei e sto al telefono fino a tardi con quelli della costa occidentale e con gli asiatici. Scrivo in aereo, in treno, e la sera tardi quando a casa tutti dormono.
Quale e come è stato il tuo primo approccio con i circoli sardi?
Circa dodici anni fa, a Toronto, che a quei tempi aveva un circolo ben organizzato e ben frequentato, con l’allora presidente Franco Salis. Ad onor del vero, inizialmente ho dovuto subire la diffidenza palpabile della “vecchia guardia”, una diffidenza che si è dissolta solo dopo un paio d’anni. Credo che si tratti di un dato antropologico tipico di tutte le comunità migranti, non solo dei sardi. Il mio status di migrante recente e d’istruzione superiore non ha certo facilitato il contatto. Ma devo dire che tutta questa diffidenza si è sciolta come la neve canadese ad aprile e ha lasciato posto ad una grande complicità e ad un grande calore umano. Anche a Montreal ho dovuto sottostare ad alcuni “riti d’iniziazione”, per così dire. E anche qui nel giro di qualche annetto la diffidenza ha lasciato il posto alla complicità e ad una serie di ottime amicizie personali.
Quali le maggiori iniziative portate avanti in questi anni nei circoli del Canada?
Nell’agosto dell’anno scorso la Sardegna era la “regione in vetrina” della celebre Semaine Italienne de Montréal, una kermesse tricolore che attira ogni anno oltre mezzo milione di visitatori, spesso provenienti anche da New York. È stata un’impresa titanica. Per prepararla, noi del comitato organizzatore abbiamo “sequestrato” noi stessi e le nostre famiglie per circa sei mesi. I risultati in termini di pubblico e d’immagine sono stati eccezionali, anche se, come sempre accade in manifestazioni di questo genere, sono difficili da quantificare e soprattutto da monetizzare. Il nostro è un lavoro continuo di promozione che si snoda di cena in cena, di conferenza in conferenza, di presentazione in presentazione, che non rallenta e non si scoraggia mai, anche se spesso i motivi per mollare le redini sarebbero molti e convincenti. Ma l’amore per la nostra terra ci trasforma in altruisti e incoscienti stakanovisti. E questo in un paese come il Canada, nel quale anche i minuti secondi hanno un prezzo e nessuno fa niente per niente.
Parlaci dei circoli in Canada..
Un tempo, fino al 2000 circa, il Canada poteva vantare quattro circoli riconosciuti (Montreal, Toronto, Niagara e Vancouver) e uno ancora non riconosciuto (Sarnia). Questo fu l’apogeo. Avevamo quattro volte più circoli degli USA, che è un paese dieci volte più popoloso. Poi è iniziata una graduale e inesorabile flessione, dovuta più che altro ad alcune dolorose dipartite. Nel 2003 la morte del presidente di Vancouver, il compianto diplomatico-poeta Antoni Uda, ha lasciato un vuoto che nessuno è riuscito a colmare e che ha portato il circolo alla dissoluzione nel giro di qualche mese. Alcuni tentativi di rianimazione si sono scontrati con la stanchezza degli anziani e la riluttanza dei giovani a piegarsi alle tortuosità burocratiche imposte dalla Regione. Il circolo di Niagara, dopo la scomparsa del presidente Salvatore Marchioni nel 2004, ha attraversato una crisi simile, dalla quale è uscito per il rotto della cuffia trovando la forza di nominare un nuovo consiglio direttivo ed un nuovo presidente nel 2006. Il circolo di Toronto, vecchio di trentacinque anni, nel 2006 ha subìto un collasso quasi improvviso con la rinuncia al contratto d’affitto e la sospensione sine die delle attività. Una delle ragioni di questo “autoaffondamento” è stata, a detta del presidente, l’insostenibilità del carico burocratico richiesto da Cagliari negli ultimi anni. E anche lì, stesso discorso: anziani stanchi e giovani impauriti dalla burocrazia. Il circolo di Sarnia, fondato nel 2003, è oggi un circolo ben funzionante. Hanno acquistato anche la sede sociale. Sarnia è un caso emblematico perché ha sempre evitato il riconoscimento regionale, che è visto più come un cappio al collo che come un’opportunità. Sarnia ha comunque le risorse per andare avanti e tutte le migliori intenzioni di restare il più a lungo possibile immune dalla burocrazia regionale. Trovo che sia un caso interessante, che insieme alle crisi di Toronto e di Vancouver disegni un quadro preoccupante di distacco tra la sempre più bizantina burocrazia regionale e le nuove generazioni di oriundi sardi cresciuti all’aria buona dell’efficienza anglosassone, e quindi sempre meno disposti a farsi trattare da scolaretti impertinenti. Credo che a Cagliari non abbiano idea di come funziona, nei paesi anglosassoni, il rapporto tra cittadino e funzione pubblica. Né ai nostri giovani interessa conoscere come funziona in Italia: ciò che leggono sui giornali ed il sentito-dire li scoraggiano già prima di cominciare.
Quali sono i programmi futuri?
Non molti, a dire la verità: gli ultimi progetti e le ultime manifestazioni ci hanno lasciato una punta di amaro in bocca. Alla fine della fiera, è il caso di dire, ogni evento si conclude sempre con enormi dispendi di denaro personale e di tempo sottratto al lavoro e alle famiglie. Le soddisfazioni umane arrivano, non v’è dubbio, ma sono spesso raggelate da grandi docce fredde provenienti da Cagliari. D’altronde, per parafrasare una mia amica sardo-canadese, “non abbiamo bisogno della benedizione regionale per dirci sardi e celebrare la nostra cultura.”
E il ricambio generazionale nei circoli come viene vissuto in Canada?
Con grandissima difficoltà. Vedi, non ce l’ha ordinato il medico di far parte dei circoli dei sardi all’estero. È una libera scelta, e come tutte le scelte di libertà dovrebbe portare in dote una serie di vantaggi, morali o materiali. Ma quali sono i vantaggi morali o materiali, per un giovane canadese d’origine sarda, del far parte di un circolo? Non è necessaria la tessera di un circolo per dirsi sardi, così come l’avere in tasca la tessera non mette al riparo dal disinteresse. Questo è un paese di immigrati, e tutti (proprio tutti!) provengono da una base etno-culturale diversa. Non è una novità, e non è neanche poi così interessante. Lo sforzo che assorbe un giovane canadese, più che quello di continuare a celebrare una diversità che per molti aspetti gli sfugge, è soprattutto quello di celebrare la comune patria che lo accoglie. È diverso per noi, che siamo nati e cresciuti in Sardegna. Ma per loro, la nostalgia non agisce più come stimolo identitario. Non dimentichiamoci poi che si tratta di giovani con un acuto senso della superiorità morale e culturale della civiltà anglosassone. Sono coscienti di essere figli di un sistema vincente in ambito mondiale, e tutta la modestia di questo mondo non li indurrà mai ad abbassare i loro standard morali e culturali. Nel rapporto genitori-figli, questo tiro alla fune culturale diventa spesso drammatico. E si risolve a vantaggio dei figli, che rimproverano ai genitori tutti quei modelli culturali come l’indulgenza, l’autocommiserazione, il servilismo, l’ambiguità, il familismo, l’irresponsabilità e il fatalismo, che ai loro occhi sono l’eredità più pesante dell’essere italiani, meridionali, cattolici e per giunta emigrati.
E il tuo impegno in Consulta? Come lo analizzi?
Se non cambierà la normativa regionale sull’emigrazione, la discussa e discutibile legge 7/91, e se non cambierà la filosofia e la cultura vigente in Regione, non vedo un gran futuro per la Consulta dell’emigrazione. Continueremo ad essere convocati dai quattro angoli del mondo, due volte all’anno, per trascorrere a Cagliari una striminzita e costosissima mattinata. Chiederanno il nostro assenso a piani triennali e programmi annuali che ci verranno serviti sul tavolo all’inizio della riunione, e sui quali voteremo in fretta e furia e quindi con scarsissima cognizione di causa. Non è un bello spettacolo, e mi fa spesso sentire inutile. Mi piacerebbe una Consulta nella quale si discuta a lungo e in profondità, se necessario ci si accapigli, ma che valga la pena del denaro, del tempo e delle energie spese. Noi emigrati abbiamo un grande, immenso vantaggio: siamo impermeabili alla melassa di deferenza che pervade la vita pubblica italiana. Possiamo dire quel che pensiamo, senza paura che le nostre idee danneggino la nostra carriera, o quella dei nostri figli. Il che accade purtroppo molto spesso, in Italia. Eppure, chissà perché, a volte osservo dei colleghi emigrati che continuano a mantenere questo strano ossequio verso il potere costituito. Potrebbero cominciare con il dare del “signore” a tutti, come si fa da noi, eppure ogni tanto li sento cedere all’“onorevole”, “dottore”, “presidente” e via di seguito. È uno spettacolo surreale.
La Regione Sardegna fa abbastanza per promuovere e incentivare le attività dei circoli?
Fa tutto quel che può fare, viste le condizioni, le leggi e il milieu culturale italiano attuale. Ma è proprio questo milieu culturale che sconfigge le migliori intenzioni. Fin quando l’Italia continuerà ad essere un paese nel quale il potere pubblico considera tutti i cittadini, senza eccezione, dei potenziali ladroni da acciuffare, e i cittadini considerano il potere pubblico un tiranno da imbrogliare e da evitare con tutti i mezzi, non mi aspetterò niente di buono. Lo ripeto sempre: il Canada ha un sistema che può essere facilmente frodato da un qualunque ragazzino italiano. Ma pochissimi lo frodano. E non per astratto senso civico, ma per un calcolo molto semplice: se un sistema aperto come questo dovesse diventare un sistema chiuso come quello italiano, sarebbe tanto peggio per tutti.
Il tuo rapporto con la Sardegna oggi?
Ottimo direi, complice il fatto che ci separano cinquemila chilometri d’oceano!
Ho letto “Sardignolo”. L’ho trovato superficiale, banale, non sempre scritto bene, assolutamente sopravvalutato. Sulla lingua, sul mito, sull’identità, sull’ospitalità sono scritte cose di un’ovvietà sconcertante. Francamente mi è parsa una mozzarella scaduta proposta come fresca e genuina. Se solo l’autore avesse letto un po’ di più non sarebbe caduto in simili amenità. Trovo questo personaggio, e l’intervista lo rivela, un po’ supponente e spocchioso. Mi chiedo: perché chiunque abbia varcato l’oceano sente l’esigenza di ergersi a maître à penser, a guida morale e intellettuale del popolo sardo? E perché noi sardi dobbiamo continuare a vivere il complesso di inferiorità di credere che chiunque abbia vissuto e lavorato all’estero possa e debba necessariamente insegnarci qualcosa o pontificare su tutto ciò che ci riguarda? Il suo punto di vista è rispettabile (benché superficiale e datato) e lo è, però, quanto quello di molti altri che senza autocelebrarsi (5 0 6 lingue le può conoscere anche un usciere d’albergo) studiano, lavorano e producono, in Sardegna e fuori. Direi di più. A volte lasciare la propria terra non giova. Lo sradicamento può determinare forme di alterazione del pensiero, del comportamento e dell’affettività, dovute al trauma della perdita e dell’allontanamento. In quei casi è meglio che il mare separi il proprio essere e il proprio esistere dalla propria Itaca. Stia in Canada, il nostro acuto osservatore. Ce ne faremo una ragione. Ma sappia che stando qualche anno in Sardegna, forse avrebbe riacquistato qualcuna delle qualità che ci pare abbia irrimediabilmente perduto: l’umiltà, il senso della misura e del limite, il valore del silenzio e dell’ascolto soprattutto quando si affrontano argomenti che non si conoscono. Cordiali saluti.
In questi giorni ho letto, viaggiando, Sardignolo, che mi ha dato un amico. Oggi, cercando sul web info sull’autore ho trovato questa intervista. Ho trovato il testo di una freschezza assoluta e mi ha entusiasmato. Personalmente amo Montreal, che come tutti i luoghi ha anche le sue pecche, perché è il connubio di tanti desiderata: libertà di essere, libertà di fare, ma in una dimensione che non è solo individualismo … se vogliamo lieve ma ricca differenza rispetto agli USA. Parto da qui per dire che a me Sardignolo è piaciuto perché apre la finestra su ciò che potrebbe essere e non è. Non solo per la Sardegna, ma anche per altre Regioni italiane (io non sono sardo). Insomma ciò che altri hanno visto come banalità sono solo gli occhi aperti di un bambino cresciuto che non ha perso entusiasmo, ma lo alimenta attraverso la scoperta, quotidiana. Non sono un critico letterario, solo un semplice e casuale lettore, una persona che si è ritagliata un piccolo spazio di godimento con la lettura in mezzo agli impegni di lavoro.
Ho letto “Sardignolo”. L’ho trovato offensivo verso il popolo Sardo, si offensivo perche lei ha perduto come sopra indicato da Sandra Ruiu, l’umiltà, il senso della misura e del limite, il valore del silenzio e dell’ascolto soprattutto quando si affrontano argomenti che non si conoscono. Scusi se mi permetto ma lei e una persona vanitosa e arrogante (basta leggere la sua intervista per capire il suo gran Dio che e’). Congratulazioni per il suo modo di esprimere il suo pensiero con delle parole che vorrebbe far intendere che il resto del popolo Sardo sia un popolo di ignoranti <<tranne lei >>… opsss sorry come si dice in’inglese.
Ci faccia il piacere di starsene in Canada acuto osservatore non vorremo che il Canada possa sofrire la sua mancanza, quando mai e ribadisco, quando mai l’emigrazione esprime il suo giudizio nei confronti di un’emigrato , ma ci faccia il favore "de andai a c……. i" ! Il suo libro e superficiale e banale quanto lo e lei, in questa intervista.
Ha raggione la signora Sandra Ruiu, e chiudo con le stesse frasi: sappia che stando qualche anno in Sardegna, forse avrebbe riacquistato qualcuna delle qualità che ci pare abbia irrimediabilmente perduto: l’umiltà, il senso della misura e del limite, il valore del silenzio e dell’ascolto soprattutto quando si affrontano argomenti che non si conoscono. Cordiali saluti.
Interessante vedere quali reazioni susciti il provare a togliere l’amata isola dal centro ombelicale del mondo e il provare a dire che al centro del mondo c’è… il mondo! Sardignolo è ormai datato (ha ben 6 anni!) e molte delle cose che ho scritto allora non le scriverei oggi, ma a rileggerlo trovo che conservi ancora quel valore di sasso nello stagno della stantia e ammuffita identità sarda, soprattutto quella delle "élite" urbane, che è una cosa di un provincialismo sconcertante. E certo che non servono 5 o 6 lingue. Ma quando due di queste 5 o 6 sono il sardo e il catalano, parlati e scritti, direi che aiuta molto a non perdersi nel luogo comune quando si parla d’identità. A sentire certi commentucci da maestruccia invidiosuccia, il mio pensiero corre a certi funzionari regionali, cui gli emigrati piacciono ignoranti e adoranti, quando poi qualcuno prova a smontare il loro castelletto di tracotanza e supponenza da centro del mondo, ooops! Scatta il "chi credi di essere" puntuto e feroce. Che è un vecchio riflesso sardo che conosciamo ahimè molto bene.