di CLAUDIA MURA
Bombe d’acqua, mareggiate, trombe d’aria, cicloni tropicali – a dispetto della latitudine – e alluvioni. I climatologi ripetono da tempo che eventi estremi come questi sono destinati ad intensificarsi a causa dell’innalzamento della temperatura terrestre, senza che la comunità internazionale riesca a prendere adeguate contromisure. Allora non resta che attrezzarsi per il peggio e preparare le nostre città agli effetti di questi cataclismi, rendere quindi i centri abitati resilienti. Una delle parole che è ricorsa più spesso durante il dibattito al Festival dell’Architettura “Cagliari, una città alla prova d’acqua”. L’interessante discussione ha messo in luce cosa debba essere fatto dalle amministrazioni per proteggere i suoi cittadini a cominciare dalla cura del territorio: dalla più banale manutenzione dei tombini e dei corsi d’acqua, a interventi meno ovvi ma non meno efficaci come quelli che intendono abbattere la temperatura dei centri urbani. Rimuovere quindi le auto dalle grandi piazze, ridipingere di bianco l’asfalto e creare zone d’ombra, cioè piantare alberi lasciando però terra sufficiente attorno alle piante, quella terra che fa “respirare” il suolo e che assorbe l’acqua quando piove. Insomma bisogna evitare il più possibile che l’acqua arrivi alle reti idriche che spesso sono dei veri colabrodo.
Alla fine degli interventi, ci siamo fatti spiegare meglio da Alessio Satta quali interventi possano salvare le nostre città. “In realtà è abbastanza semplice perché ogni volta che togli naturalità a una città, c’è un impatto diretto: aumento della temperatura e maggiori danni legati ad eventi climatici estremi. Se ci fosse meno superficie impermeabile: meno cemento, meno asfalto, più pavimentazione drenante e più verde non si verificherebbero tanti danni. Le piazze di Cagliari hanno tutte grosse superfici impermeabili mentre gli alberi, quando ci sono, vengono chiusi in una piccola aiuola e questo comporta due problemi: si riduce il suolo drenante e si indebolisce la pianta a partire dalle radici che non possono più lavorare come dovrebbero. Nei decenni si è dato sempre più spazio alle auto aumentando l’asfalto e riducendo lo spazio degli alberi, serve un’inversione di tendenza”.
Si parla di un cambiamento culturale oltre che urbanistico. “Sì, ma quando lo si fa notare qual è il primo appunto che fanno le amministrazioni? Che il verde ha bisogno di manutenzione, e la manutenzione costa. È vero, i costi ci sono ma sono infinitamente minori rispetto a quelli che si devono affrontare se il verde non si cura o, peggio, non c’è”.
Prevenire i disastri costa sempre meno che curarne gli effetti. “Esatto, ma c’è di più: ogni amministrazione locale divide i costi in spesa corrente o spesa di investimento. La creazione e la manutenzione del verde è considerata spesa corrente, invece dovrebbe essere considerata un investimento per la città che diventa così più resiliente e sarà capace di resistere ai danni e, per esempio, assorbire più acqua in caso di forti piogge. Ma il verde assolve anche la funzione di limitare il calore con l’ombra. Introdurre filari di alberi in una strada che ne è priva, ha l’effetto immediato di abbattere il calore e questo si traduce anche in un risparmio per le famiglie che useranno meno l’aria condizionata. Un albero significa investimento, significa risparmio nelle tasche dei cittadini”.
Durante il dibattito avete parlato di un Piano Nazinale di ripresa e resilienza la cui applicazione sarà legata alle risorse del Ricevery Fund. “Il piano nazionale ha la funzione di aumentare la resilienza del Paese trasformandola in opportunità per la ripresa e creando lavori attorno alla riqualificazione ambientale. Ora si stanno raccogliendo i progetti strategici locali”.
La Sardegna è una delle poche regioni che si è dotata di un piano regionale. “Sì è la Strategia regionale di adattamento ai cambiamenti climatici coordinata dall’Assessorato all’ambiente che dovrebbe diventare operativa nei prossimi anni. Ad esempio, io sto lavorando nell’Oristanese dove stiamo sperimentando, in coerenza con il piano regionale, delle soluzioni attraverso le zone umide per una migliore circolazione delle acque. L’idea è usare gli stagni come grandi camere di compensazione per assorbire l’impatto delle alluvioni o delle mareggiate”.
E come mai continuano a verificarsi disastri se abbiamo un piano regionale? “Perché questo progetto, che dà delle linee guida, deve essere ancora implementato a livello locale. Bisogna che i territori lo applichino e quindi ogni città, partendo da quelle linee guida, deve definire il suo piano locale attraverso un atlante dei rischi. Ovviamente tenendo conto del piano di rischio idrogeologico che ha già tantissime informazioni. Ci sono comuni che hanno questo piano ma molto dipende dalle singole amministrazioni e dalla volontà politica di farlo”.
Durante il dibattito lei ha affermato che questo atlante dei rischi potrebbe essere fatto senza troppa difficoltà. “Almeno per Cagliari sì perché è una città molto studiata, nonostante non abbia un piano urbanistico adeguato al Ppr (Piano paesaggistico regionale). C’è però una vasta conoscenza sulla consistenza del costruito, sul funzionamento delle zone umide e c’è un piano strategico della città metropolitana che è in preparazione con tantissimi studi anche dell’università. Si tratta quindi di mettere a sistema questa marea di informazioni”.
E questo è ciò che devono fare le istituzioni, nazionali e locali, ma c’è qualcosa che può fare il singolo cittadino per proteggere se stesso e i propri beni? “In realtà proteggere i cittadini, soprattutto da fenomeni di elevata intensità, è responsabilità delle istituzioni pubbliche ma i cittadini possono attuare dei comportamenti virtuosi a cominciare dall’essere informati e assecondare le eventuali allerte meteo anche parcheggiando correttamente. Poi è importante la manutenzione delle proprie abitazioni a partire dai tetti, è importante non fare abusi edilizi e non buttare per strada niente che possa otturare i tombini. Insomma un comportamento all’insegna della civiltà”.
C’è poi il grande capitolo legato all’abusivismo e ai condoni. “Se si è costruita una casa abusiva in una zona ad alto rischio idrogeologico, non ci si può sorprendere se poi arriva la piena e se la porta via. Anche se magari, a suo tempo, l’abitazione è stata condonata da un sindaco di manica larga. Bisogna informare il cittadino dei rischi e attuare eventualmente forme di compensazione per chi ha acquistato in territori fragili. Non è facile ma parliamo di vite umane”.
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