di OMAR ONNIS
Mentre nel mondo, Italia compresa, si parla di “seconda ondata” della pandemia di covid-19, la Sardegna conosce la sua prima espansione del contagio.
Era tutto abbastanza prevedibile (e previsto): un’isola sostanzialmente covid free fino a maggio, una volta spalancate le porte al flusso turistico, si ritrova a fare i conti con la diffusione del virus.
Su questo non mi sento di avere certezze granitiche. Troppo scadente e incerto il monitoraggio del contagio nei mesi della chiusura e in quelli immediatamente successivi, troppo pressapochismo nelle misure di indagine e di contenimento, perché possiamo proclamare conclusioni sicure anche solo in termini quantitativi.
L’unico indizio possono essere i dati sui ricoveri e un eventuale surplus di decessi (posto che vi sia stato e in termini significativi: qualcuno lo sa?). Ma anche qui è tutto da verificare, da contestualizzare e da studiare.
Al di là di questo, però, ciò che allarma ancora oggi non è più il virus in sé (o il virus *in me*, per parafrasare un noto gioco di parole), quanto piuttosto la gestione complessiva dell’emergenza da parte dei responsabili istituzionali e politici.
All’inizio del maggio scorso scrivevo:
Non c’è traccia di un’elaborazione in proprio e di una prospettiva che si discostino dalla piatta esecuzione, in termini persino più prudenti, delle disposizioni governative centrali. Se si spoglia tutta l’azione della giunta regionale dalla retorica e dalle incrostazioni propagandistiche, rimane la cruda verità di una colpevole inerzia politica ormai conclamata. Cosa voglio dire? Voglio dire che non ci sono più possibili scusanti per la scadente e per certi versi drammatica gestione (o mancata gestione) di questa emergenza da parte della classe politica sarda. La situazione in Sardegna è per alcuni aspetti molto positiva, per altri estremamente opaca. I dati disponibili possiedono una dose di attendibilità piuttosto bassa, data l’esiguità dei tamponi effettuati nell’isola. E tuttavia i risultati che emergono dai tamponi fatti sono in qualche modo confortanti. Anche i dati dei ricoveri nelle terapie intensive sono abbastanza rassicuranti. Inutile nasconderci che un’espansione di tipo “lombardo” dell’epidemia metterebbe le strutture sanitarie sarde in gravi difficoltà. Tanto più in quanto non è stato fatto NULLA per predisporre una risposta adeguata tanto al picco del contagio quanto alla gestione della “convivenza” col virus.
Oggi assistiamo basiti alla polemica innescata dalla giunta regionale, e in particolare dall’immarcescibile assessore Nieddu (quello secondo cui qualche contagio in più tra il personale ospedaliero “ci può stare”), contro i sindaci e le sindache. Le amministrazioni locali hanno lamentato di essere state lasciate sole nell’affrontare l’emergenza – che, adesso sì, diventa diffusa e concreta – e di dover far fronte alla situazione con pochi mezzi, scarse informazioni, pochissimi servizi disponibili.
Nonostante questi limiti oggettivi, sono appunto le amministrazioni locali, ora come ora, a tenere in piedi la baracca, specie nei comuni dove esiste una giunta non meramente di facciata e il sindaco o la sindaca non sono semplici delegati locali di fazioni o partiti a cui rispondere.
Dalla Regione non è arrivata alcuna indicazione utile, alcuna forma di pianificazione e di organizzazione, ma solo rimproveri e paradossali accuse di eccesso di zelo.
L’opposizione non ha dato migliore spettacolo della maggioranza, occorre dirlo. Addirittura l’ex presidente del Consiglio regionale ed ex sindaco di Sassari Ganau, del PD, ha avuto la faccia tosta di stigmatizzare òa riduzione dei posti letto nei presidi sanitari, totalmente dimentico della riforma del servizio sanitario sardo realizzata dalla sua maggioranza, ad opera del mirabile trio Arru-Paci-Pigliaru.
La stessa riforma che prevedeva tagli ai presidi e al personale, razionalizzazione (si chiama sempre così) dei servizi, favore smaccato verso l’investimento privato nel Mater Olbia (molto amato anche dall’attuale maggioranza, va ricordato) e il tutto condito con la famosa creazione di un’Autorità unica nell’ambito sanitario isolano. Ecco, su quest’ultimo fronte anche l’attuale giunta e la sua maggioranza sono state molto attive, negli scorsi mesi. Troppo urgente riformulare l’organizzazione ospedaliera per restituire poltrone, prebende e spazi di manovra clientelare a tutti i famelici maneggioni che ne sono l’anima e le guide. La riforma del servizio sanitario è stata fatta a tamburo battente, quasi con maggiore solerzia di quella impiegata a tentare di scardinare le tutele paesaggistiche e ambientali vigenti.
Nessun segno invece di attenzione al funzionamento concreto della macchina sanitaria, all’irrobustimento degli organici e delle strutture, al ripristino o alla creazione di una medicina territoriale diffusa ed efficiente. Tutte cose che sarebbero indispensabili (anche) per affrontare l’emergenza.
L’impressione che la giunta Solinas non avesse alcun piano, per la gestione della pandemia in Sardegna, si è rivelata corretta e forse persino ottimistica. Non è davvero facile capire cosa muova questi personaggi nella loro azione politica. Certamente l’egoismo patologico, il cinismo più amorale, la totale assenza di empatia. Ma non so se basti questa sommaria diagnosi di stampo psicologico e soggettivo per dar conto di tanta inadeguatezza.
Non serve a nulla nemmeno accusare genericamente i sardi di non saper scegliere chi li governa. È una argomentazione fallace e facilona, buona solo a deresponsabilizzare chi la propone e a lavarne un po’ la coscienza. Mai che si metta in discussione la logica del “voto utile”, del “battere le destre”, delle leggi elettorali oligarchiche, del ricatto occupazionale, della subalternità culturale e morale. È il solito trucco di attribuire la colpa agli “altri”. Ma, se guardiamo all’offerta politica nel suo complesso, non è che le alternative all’attuale maggioranza regionale fossero molto migliori, né per qualità né per visione strategica.
E allora forse il problema sta ancora più a monte. Il problema, come ho già provato ad argomentare altre volte, è che ci dibattiamo tra una debilitazione diffusa e duratura del tessuto sociale, etico e culturale della collettività sarda da un lato e una selezione del personale politico basata sulla mediocrità, sulla fedeltà ai capi e sull’opportunismo più egoistico dall’altro.
L’inadeguatezza della politica sarda, insomma, non è una causa dei nostri problemi, ma un effetto. È l’insieme delle condizioni storiche in cui viviamo che conduce a questi esiti, sono i rapporti di forza totalmente sbilanciati in senso coloniale, che producono una classe politica disastrosa; è la mediocrità della nostra intellettualità istituzionale, a non fornire idee, visioni, una dialettica vitale sui temi più rilevanti; è la subalternità patogena alla miserevole egemonia culturale e all’infotainment della sfera mediatica italiana a privarci di elementi di giudizio, di informazioni, di una visuale non periferica né provinciale su noi stessi e sul mondo.
Per questo oggi ci ritroviamo, dopo mesi di conclamata emergenza, quasi completamente sguarniti davanti alle forze storiche in movimento, di cui la pandemia è solo un elemento.
La pandemia passerà, con conseguenze più o meno gravi a seconda di come sapremo affrontarla e gestirla. Ma non sarà l’unico fattore con cui dovremo fare i conti. Certo è che non ci lascerà affatto migliori di come ci ha trovato. Il timore è che in realtà dia un colpo definitivo alle speranze di riscatto collettivo della Sardegna. Su questo è necessario ragionare non solo in termini di mera risposta alla contingenza emergenziale. Serve uno sguardo prospettico che dalla pessima gestione di questo frangente storico tragga lezioni più generali, di indole strategica.
Su questo mi sento di fare un appello alle sindache e ai sindaci che in questi giorni si trovano in prima linea (come sempre, del resto). Da loro, più che dall’opposizione (?) in Consiglio regionale, deve scaturire un nuovo approccio pragmatico alla questione sarda nel suo complesso. Che non può prescindere da una rinnovata coscienza della nostra realtà storica, materiale, concreta, e farne la base per una proposta politica di ampio respiro. Ma lo stesso appello va esteso all’intera cittadinanza, o almeno alla parte di essa non del tutto votata alla passività più ottusa e alle pulsioni più stupide e pericolose. In queste settimane si rinnoveranno decine e decine di amministrazioni locali. Non sarebbe male se le scelte dell’elettorato privilegiassero non i rapporti clientelari, le dinamiche familistiche, il basso calcolo personale, ma premiassero le proposte più democratiche e coraggiose, le candidature indipendenti da centri di potere esterni e dalle varie “cupole” locali.
Anche così si può sperare di affrontare meglio la crisi della covid-19 e magari prendere lo slancio per mutare finalmente l’attuale, mortifera inerzia storica.