di PAOLA MEDDE
Il mio primo figlio è arrivato dieci anni fa, con un volo da Minsk ad Elmas, con scalo a Roma. Aveva sette anni, il viso più angelico che un bambino possa avere ed uno zaino con dentro qualche maglietta, uno spazzolino e un grosso libro in cirillico, senza figure. Mentre gli accompagnatori facevano l’appello e abbinavano i bambini alle famiglie, lui si dondolava a una sbarra d’acciaio e noi ci dicevamo: “Speriamo che sia lui”, senza sapere perché. Era lui. Non sapeva una parola di italiano, e noi di russo. Avevamo comprato solo un vocabolario tascabile per comunicazioni d’emergenza. Arrivati a casa, aveva fatto il giro di tutte le stanze, incuriosito, e poi si era fermato nella sua camera, estasiato. Per qualche giorno avevamo comunicato con i gesti, ma poco dopo aveva imparato l’italiano in una maniera sorprendentemente veloce. Si portava dentro tanti fantasmi – compreso quello di Chernobyl, ma non l’unico – troppo pesanti per un bambino di sette anni, e persino per noi, non preparati a tanta sofferenza. Il modo per renderlo felice era preparare la pizza con lui o portarlo al mare. Nel comprargli troppi giocattoli o vestiti eravamo combattuti perché, a lui che aveva quasi niente, ci sembrava di dargli in pasto la parte peggiore del nostro sistema: l’attaccamento alle cose materiali. Lui aveva invece una mania tutta comunista, e senz’altro bellissima, di dividere tutto equamente: se c’era una sola fetta d’anguria la divideva fra noi tre, pure una cingomma la divideva in tre. O tutti o nessuno. Sembrava arrivato da un altro mondo. Lo era.
Il nostro primo figlio sarebbe tornato per molte altre estati, anche quando sarebbero arrivati gli altri due. Sarebbe rimasto per sempre il fratello maggiore della nostra famiglia. Ci capitava, via via che cresceva, di parlare con lui del suo paese, della vita lì e del suo presidente. Quando era piccolo, noi lo provocavamo scherzosamente e lui ci rispondeva “Noooo, Lukashenko bravo”. Allora gli avevamo spiegato cosa era un dittatore. Qualche settimana fa, quando sono iniziate le proteste in Bielorussia, gli abbiamo scritto per sapere come andava. E così abbiamo scoperto di avere un figlio partigiano. Il nostro figlio va in piazza, quasi tutte le domeniche, insieme a migliaia di persone. Insieme a migliaia di persone rischia ogni volta di essere espulso dal college, o arrestato, o torturato in carcere. Se ho superato il mio timore di scriverne qui è perché penso che non ce la faranno ad arrestarli tutti, non gli basteranno le carceri. Vediamo video agghiaccianti su quello che sta succedendo: vediamo l’orgoglio di un popolo che chiede libere elezioni, vediamo la repressione di squadre paramilitari che manganellano chi protesta e li spingono sui furgoni per arrestarli. Una parte di me resta incredula e l’altra le risponde cinica “Di cosa ti stupisci?”. Mi torna sul palato il sapore amaro del G8 di Genova e mi dico che se il dissenso non è tollerato dalla democrazia, figuriamoci dalla dittatura. A ogni paese le sue macellerie cilene. Ogni sera aspetto il suo messaggio che mi dice “Tutto ok”, che vuol dire “Non mi hanno arrestato”. Lui manda questo messaggio, ogni sera, da bravo figlio. Tengo con me i contatti di Amnesty International, perché se un giorno non riceverò il messaggio, qualcosa dovrò fare. Di nuovo, una parte di me resta incredula nel trovarsi in questa situazione, che sembra venuta fuori dalla Resistenza, o dal Sudamerica degli anni Settanta, e invece l’altra parte si dice che era nelle cose una transizione democratica dell’ultima dittatura europea. Con amarezza ingoio il silenzio di troppa parte di Italia e di Europa, perché questo sta succedendo in Europa. Questa rivoluzione pacifica, mi ha raccontato mio figlio, è in piedi grazie a due cose: internet e le donne. Internet, perché il governo non è riuscito a spegnerlo e la comunicazione orizzontale è riuscita a rompere la vulgata dei media di regime e ad organizzare la protesta. Le donne, perché è alle donne che si deve la scelta delle manifestazioni pacifiche: la scelta di resistere in maniera non violenta agli attacchi della milizia è stata una scelta delle donne. Che hanno una marcia in più, una volta di più.
Io so che ce la faranno. Non so quanto sarà lungo il loro cammino, e spero che non si lascino abbagliare dal capitalismo, che cerchino una terza via. Perché dividere una caramella in tre resta un gesto immensamente migliore che mangiarla da soli. Ma ce la faranno. Cosa possiamo fare noi, da qui? Parlare di quello che sta succedendo, non lasciarli soli. Per questo, sebbene abbia pensato molto prima di scrivere, ho deciso di farlo, e chiedo a chi vuole e a chi può di condividere questo post, o altre testimonianze su quello che sta succedendo in Bielorussia. Di sostenere le iniziative, le raccolte firme. La Sardegna, e anche l’Italia, hanno dato una grande prova di solidarietà ospitando per anni i bambini di Chernobyl. Oggi quei bambini sono diventati grandi e stanno lottando pacificamente per la loro libertà. Se non li abbiamo lasciati soli allora, non dobbiamo farlo oggi. Abbiamo il dovere di essere, ancora una volta, dalla loro parte.