di FRANCA MENNEAS
A ottobre 2019, è uscito per la casa editrice Condaghes il romanzo di Marco Piras-Keller Se la grande madre vuole – Arresolútu. Una piccola ‘saga’ familiare che tocca cinque generazioni in un arco di tempo di meno di un secolo, dall’inizio del ‘900 al 1990. Centro della narrazione è il paese di Arríu, un villaggio agricolo minerario di 300 anime del Sulcis in Sardegna. Nella prima parte emerge come protagonista Tanièi e il suo essere arresolútu, come il titolo stesso esplicita: determinato, risoluto, dominato dal demone del suo senso di giustizia e individualismo, che lo porta a combattere contro il mondo tutto pur di difendere questi suoi punti fermi. Un personaggio quasi epico, anche agli occhi dei suoi compaesani che conservano ricordo delle sue ‘gesta’ ancora molti anni dopo la sua prematura scomparsa, colpiti dalla sua incrollabile coerenza. Sarà poi la figlia Erminia, quando si imbatte in questa figura di suo padre bambino, che non conosceva, a conquistare narrativamente la scena e provare a imporsi come protagonista, prima di essere travolta lei stessa dagli avvenimenti, soprattutto da una rivelazione che la sua famiglia era riuscita a custodire per sé sola. Sullo sfondo, e di contorno, uno scenario fornito dalla piccola comunità di Arríu con i suoi commenti, i suoi giudizi, un mondo nel quale ha ancora un grande ruolo su connóttu, le norme che regolano l’equilibrio della piccola comunità, ma che deve, adesso, confrontarsi con la modernità. E sopra ogni cosa, la presenza vaga, quasi evanescente, della Grande Madre; frammenti di una religiosità antica, in una convivenza quasi accidentale con la ‘nuova’ religione cristiana.
Marco, questo è il tuo primo libro che viene pubblicato ed è un romanzo. Come sottolinea Marcello Fois nella prefazione, “esordire con un romanzo di questi tempi parrebbe un atto protervo”. Come e da dove nasce questo testo? In realtà, a parte qualche pubblicazione di linguistica, in Svizzera ho pubblicato nel 2014 un altro testo di narrativa, molto diverso da questo, presso una casa editrice di Zurigo, in tedesco. In questo senso si può dire che Se la Grande Madre vuole è un esordio in Italia e in italiano. Questo che dice Marcello Fois nella Prefazione, e che tu rilanci, cioè quasi di un “azzardo” a scrivere un testo cosí, un po’ mi meraviglia e, devo dire che, in fondo, non capisco del tutto questa osservazione. Non ho mai chiesto a Marcello. Quanto al come nasce il testo, c’è stato un periodo in cui ho scritto vari racconti lunghi, di bambini e bambine speciali, ambientati soprattutto in Sardegna: uno di questi era proprio Tanièi. Scrivi e riscrivi, si è amplificato fino a raggiungere l’attuale consistenza. Sisìnni gli aveva imposto di stare lì, sotto il grande albero di fichi veri, a Tanièi, suo figlio di nove anni, e Tanièi lì era rimasto, statuato. Neppure quando il cielo aveva cominciato a diluviare, aveva cercato riparo migliore né aveva mutato posa L’occasione precisa, ‘accidentale’ di scrivere questa storia mi è venuta dalla ricomparsa, 20 anni fa, di un foglietto in trascrizione fonetica degli anni ’80, quando facevo ricerca linguistica sul campo. Registravo e poi trascrivevo in scrittura fonetica. Un giorno mia madre mi raccontava di mio padre bambino cose che non conoscevo: “Tuo padre non si riusciva a combatterlo. Tuo nonno e tua nonna lo sferzavano con l’olivastro fino a che dolevano loro le braccia, ma lui, niente: fura arresolútu e bàstara!”. Questa scena mi appariva molto forte: un bambino di nove anni, sotto un albero di fichi, sotto la pioggia, battuto; non scappa, non si difende, muto. E quella è diventata la prima scena del racconto.
Tu nasci ad Arríu e Nuracàu e hai vissuto sino a 18 anni a Carbonia. Quanto c’è di autobiografico in questo libro? Sí, sono nato a Nuracàu. A tre anni, la mia famiglia si è spostata a Arríu e quando avevo 7 anni siamo andati a Carbonia. In realtà, i nomi reali sono Narcàu e Arriemúrtas, ma non volevo dare nel libro i nomi veri, coerentemente con il carattere della narrazione: tutto è vero e, allo stesso tempo, tutto è inventato: i fatti e i luoghi. C’è molto di autobiografico. Chiunque scrive, volente o nolente inserisce molto di autobiografico. Non sono autobiografici i fatti che stanno dietro la rivelazione a sorpresa, quelli no. A Tanièi, il bambino arresolútu, ho prestato il mio aspetto fisico da bambino e certi episodi, in parte trasformati. Per fare un esempio, il traumatico taglio dei capelli che subisce Tanièi è autobiografico, magari non con quei toni epici come appaiono nel racconto. Mi sono servito anche di biografie di altri bambini; la scena iniziale della fustigazione di Tanièi è appunto un episodio della vita di mio padre che un po’ arresolútu doveva esserlo. Di autobiografico c’è anche molto delle mie convinzioni, di una certa mia religiosità e moralità, del mio pensare, ma che nel racconto vengono attribuiti ora a questo ora a quel personaggio. Tanti episodi sono reali, per quanto presi in prestito da tante vite.
La figura della Grande Madre accompagna l’esistenza dei tuoi personaggi, le scelte e i giudizi degli Arriési sono dettati, almeno in parte, dalla sua benemerenza e benevolenza. C’è come un affidarsi della comunità al volere della Grande Madre; o a quello che interpretano sia il suo volere. Era veramente cosí religiosa la comunità dove sei nato? O da dove muove questa tua concezione? Be’, non voglio vendere quello che non ho, nel senso che, onestamente, ho amplificato la presenza di questa figura nel sentire, nella religiosità della gente. Del culto della Grande Madre Mediterranea abbiamo tante testimonianze figurative in Sardegna, e una religiosità di millenni non scompare. Certo, si trasforma. È una religiosità che mi affascina e che si sovrappone in parte all’amore e al rispetto per la Natura, la nostra Grande Madre che ci nutre, ci protegge e che è anche bella. E non è poco. Se davvero pensassimo alla natura come la nostra madre, una madre da rispettare, molto sarebbe diverso. Quindi, non è del tutto arbitrario il mio avere inserito nel racconto questa presenza, per quanto vaga. Certo, in buona parte è un desiderio, un ideale. Io credo che sopravvivono ancora tracce e ricordi di questa religiosità. Del resto, sappiamo che i culti cattolici sono in buona parte adattamenti della vecchia religiosità, a partire dalla ‘Madonna-Grande Madre’. Dalle mie parti, tutto quanto la natura produce spontaneamente sul suolo (l’erba per il bestiame, le erbe selvatiche e frutti commestibili) noi lo chiamiamo “sa gràtzia de su campu”. Quindi un dono divino fatto agli uomini dalla natura. Peraltro, mi sembra di potere dire che, cosí, senza avere fatto una riflessione specifica, in tantissimi romanzi sardi c’è una speciale attenzione alla natura.
Antiche feste, riti propiziatori, credenze, superstizioni durano ancora nella comunità del secolo XX in Sardegna, sembrano essere le stesse da sempre. Annuccia e Luisa sono comari di fiori da un lontano Sangiovanni, quando, bambine, “si erano scambiate fiori e promessa di amicizia davanti al fuoco santo” e questa amicizia si conserverà per tutta la loro vita, perciò quel rito diventa un forte impegno di vita. Dunque una società dove durano o duravano valori forti accompagnati da una ritualità. Se si pensa a certe sagre, oggi forse soprattutto nel Centro della Sardegna, che duravano giorni, in cui ci si trasferiva con i carri e a cavallo in santuari campestri, e si stava giorni tra balli, riti religiosi, banchetti, non si fa fatica a vederli come residui di feste ben più antiche (si veda, per esempio, in Canne al vento di Grazia Deledda). Una annotazione: il Sulcis è un territorio con tratti di arcaicità e di chiusura notevoli, almeno fino a un certo periodo. Anche il tipo di popolamento, storicamente, è particolare, col tipico habitat disperso a “medàus e furriadròxus”, cioè stazzi dove vivono singoli nuclei familiari allargati, che danno il nome al medàu. Un territorio storicamente pressoché disabitato dove i pastori barbaricini avevano concessioni di pascolo già nel Medioevo. Poi molti di loro si sono stabiliti in maniera continuativa. Anche nomi di medàus lo testimoniano, come “i Fonnèsusu” vicino a Carbonia, per esempio. Comunque, io vedo che in gran parte della Sardegna ci sono tanti antichi riti che si conservano in superficie o in maniera ‘sotterranea’. Siamo ancora vicini a Pasqua e da noi si faceva sempre – qualcuno lo fa ancora – “sa pippìa cun s’óu”, cioè un pane “coccòi” (di semola di grano duro), modellato a forma di donna (ma direi che rappresenta, piuttosto, una bambina) con un uovo ‘piantato’ in pancia. Quale ricordo più chiaro di un rito di fertilità precristiano che dura ancora oggi? “Su Santuànni de gomàisi e gopàisi de fròisi”, il vincolo del comparatico tra Luisa e Annùccia bambine, era in uso almeno fino agli anni ’50 del Novecento. Ma il rito del saltare fuoco si fa ancora. E che dire de “su nènniri”, il grano che si fa germogliare al buio e che si porta alla luce a Pasqua? Un altro rito pre-cristiano di rinascita della natura a primavera.
Hai già detto del rispetto per la Madre Terra, che si percepisce nei personaggi. In un passo scrivi: “Anche un albero per lei poteva rappresentare un monumento; e uguale considerazione aveva per un grande masso o per tutta la costa rocciosa di un monte. Per Rosetta, quelle erano manifestazioni della divinità.” La frase che citi racconta, appunto, di Rosètta, la moglie di Tanièi, che guardava alle opere della natura con senso religioso di ammirazione e rispetto. Viene raccontato che quando andava in campagna, beveva a ogni fonte o vena d’acqua che incontrasse. Qui ho prestato a Rosètta un tratto che era di mia madre. Mia madre, sempre, se incontrava acqua sorgiva o una fonte, si fermava a bere, incontrasse anche tre o più sorgenti. Ripensandoci a distanza di tempo, io l’ho visto come un atto dovuto, di ringraziamento e di accettazione di un’offerta della natura, in un luogo dove l’acqua, peraltro, era il bene più prezioso. E, obiettivamente, lo è ancora. E quanto a rispetto, in genere – non voglio fare il discorso che sembra banale, del rispetto nei ‘bei tempi antichi’, però non vedo perché disprezzare o svalutare certi valori: il rispetto, per quanto potesse essere dettato da una sorta di codice formale; rispetto verso chi era più anziano di te, dei genitori, di madrine e padrini, dell’acqua e del cibo. Io, per esempio, quando in TV vedo degli idioti che si lanciano per gioco indecoroso cose da mangiare, non riesco a guardare. Io e mia moglie ritirammo nostra figlia dall’asilo, in Italia, perché facevano giocare i bambini con la farina che si gettavano addosso e sul pavimento. Capisco usarla, magari, per modellare figure, ma buttarla sul pavimento, calpestarla, non potevo accettarlo. Anche i simboli hanno valore. A me dà fastidio anche l’uomo che entra in una casa senza togliere il cappello.
Il romanzo è scritto in italiano, ma è in tutto e per tutto un libro sardo. Sono presenti termini in sardo, la storia e la società sono sarde e, soprattutto, usi espressioni proprie dei modi di dire dei sardi in italiano e in molte di quelle espressioni si legge anche un ‘sentire’ dei sardi. Immagino che a ciò abbia contribuito anche il tuo lungo lavoro di ricerca linguistica sul campo. Fois nella sua introduzione dice che “siamo una lingua antichissima con una scrittura giovanissima”. Se questo è vero, cosa vuol dire scrivere storie antiche con una scrittura giovane? Non so se riesco a interpretare, almeno in maniera approssimativa, il pensiero di Marcello Fois. Certamente abbiamo il privilegio di una lingua che conserva elementi importanti e numerosi di lingue antichissime parlate in Sardegna; elementi di tempi precedenti la nascita di Roma, evidenti soprattutto nei toponimi. Ma questo è il sardo. Se parliamo di scrittura giovane io credo che Marcello Fois voglia fare riferimento alla produzione letteraria in italiano; un italiano che si connota chiaramente come italiano dei sardi e che inserisce nell’italiano timbri, sonorità, espressività, ritmi del sardo. Qualcosa c’è già in Grazia Deledda che, da un lato ricorre a parole sarde, anzi ne inserisce stabilmente nel Dizionario italiano, ma – dovrei rileggerla in quest’ottica – non direi che il suo italiano sia caratterizzato dal sardo sul piano sintattico o della reinterpretazione in italiano di una parola sarda. Nondimeno non si può dire certo che la scrittura della Deledda non sia capace di parlarci del mondo sardo, dei sardi, dell’ambiente. Ma rappresentando il mondo sardo, rappresenta anche l’umanità universale. È una tra i giganti della Letteratura del ‘900. Ciò detto, la Deledda, direi che ha dovuto lavorare tantissimo per la conquista del suo italiano, tenendo a freno la sua prima lingua che era il sardo. Penso dunque che Marcello Fois faccia riferimento a quando gli scrittori sardi hanno cominciato a scrivere inserendo sonorità, parole, ritmo, strutture, metafore del sardo adattate all’italiano. E per parlare degli ultimi decenni, penso a Sergio Atzeni, a Marcello Fois stesso, a Niffoi, Milena Agus, Michela Murgia, Gesuino Nèmus e altri. Un caso ‘estremo’ è Nello Rubattu col suo spudorato e sfrontato italiano sassarese senza compromessi che popola anche di elementi di altre lingue. Il discorso porterebbe a una riflessione anche su Salvatore Cambosu, Francesco Masala e tanti altri.
Quanto alle ‘difficoltà’, il discorso sarebbe davvero lungo. Dico solo questo: la difficoltà principale, quando si tenta questa lingua, è quella di riuscire a evitare la banale sardizzazione dell’italiano facendone una lingua macchiettistica, piena di sardismi immotivati. Qui sarebbe lungo spiegare le scelte lessicali, sintattiche, sonore che ho seguito.
Che sia un romanzo sardo lo si capisce anche dai modi di dire propri di questa lingua, espressioni forti, gravi e rudi che possono fare sobbalzare tanti, tranne chi li ha sempre sentiti e sa quale peso attribuire a quei modi. Modi di dire che paiono rispecchiare un animo rude, aspro dei sardi, di solito attenti e parsimoniosi soprattutto nelle manifestazioni di affetto e amore. È veramente cosí? Traslitterando dal sardo all’italiano, certe espressioni possono risultare, sí, rudi, con poche concessioni a leziosaggini, a paroline dolci. Sul tema mi sembra che tzia Ninfa ‘teorizzi’ molto bene, parlando a Erminia del rapporto tra Tanièi e Rosètta. Ma, appunto, come dici, per chi conosce i modi, le espressioni ‘dure’ non sono segno di mancanza di affetto, di calore. È un altro modo. Ora sta cambiando, si è più teneri con i bambini, con i partner, soprattutto in certi ambiti sociali. Però una cosa voglio precisare. Ci ho riflettuto a posteriori: non c’è cattiveria, odio in questo racconto, o davvero poco, c’è molto amore, fatto di cose, di comportamenti, non di parole. Tenerezze! Ma vai e fammi il piacere, vai! Perché, per te l’amore e l’affetto sono le effusioni? ‘Tesoro’, ‘amore mio’, ‘dolcezza’ e tutte quelle scemenze? […] Anche tu non sei mica cresciuta a Parigi. L’avrai osservato e sperimentato, no? La solidarietà, la comprensione, capirsi senza troppi discorsi, senza offendersi, l’accettazione, la pazienza: quello è l’amore, se esiste! Anche Tanièi che, pure, viene duramente battuto, è molto amato dai genitori, per non parlare dell’amore tra le due bambine e poi donne, Annùccia e Luisa, e del legame tra Rosètta e Tanièi. Ma è la manifestazione dei sentimenti che è parca di carezze e di parole. Erminia, a un certo punto, si dice che forse, lei stessa è stata concepita senza un bacio. E qui cito, credo, un’espressione di un racconto di Michele Columbu, dai cui racconti (nonché da una lunga chiacchierata con lui) ho preso vari spunti. Io ricordo – adesso mi sembra assurdo – che quando partivo per Bologna, mia madre mi salutava dandomi la mano. Era cosí. Poi, mi sono ‘civilizzato’ in Continente e ho ignorato la mano e l’ho abbracciata. E credo fosse contenta dell’innovazione.
Tra i tanti temi, quello dominante, a mio avviso, o comunque quello che io ho colto con maggiore evidenza, è quello della giustizia, di ciò che è giusto e del dovere morale, direi, di ribellarsi a ciò che non lo è, Tanièi è colui che già da piccolo sente e soffre le ingiustizie, ed è disposto a subire tutte le conseguenze della sua ribellione. In questo ha qualcosa da figura epica. È sbagliato affermare che l’essere arresolútu di Tanièi è fondamentalmente un disubbidire alle regole non scritte di quella società che le ha sempre rispettate senza chiedersi quanto effettivamente fossero giuste? Il discorso è delicato. Certamente “giustizia” è una parola-chiave o un concetto-chiave del testo. E a giustizia è collegato il concetto di vendetta, ritorsione. Per Tanièi, la vendetta “è dovuta”, proprio come recita il primo articolo del Codice della Vendetta barbaricina descritto e analizzato da Antonio Pigliaru. Anche se non barbaricino, Tanièi la applica, perché per lui è come se la vendetta ristabilisse l’equilibrio in un sistema che è stato turbato. Ma, come il Codice della vendetta contiene articoli e commi che prevedono eccezioni e condizioni speciali, cosí anche Tanièi applica le sue eccezioni. Niente vendetta nei confronti dei genitori, se non il silenzio, né contro Rosètta o contro la nonna, per quanto sia torturato da quella terribile nonna. Ai genitori e alla nonna si deve rispetto in ogni caso; per Rosètta la situazione è diversa. Rosètta è il complemento di Tanièi. Ecco, “rispetto” è un’altra parola chiave del testo. Ricorre spesso. Venendo in specifico alla tua domanda, vorrei precisare una cosa: in generale, è vero che esiste su connóttu, le regole date da cui l’individuo non deve deviare, ma è anche vero che la comunità è anche capace – e ne ha il potere – di accettare, di perdonare; naturalmente, dopo avere censurato e criticato. Insomma le regole che guidano la comunità saranno severe, ma non inflessibili: c’è spazio per la comprensione, il perdono, l’accettazione. Peraltro, al contrario, mi viene da dire che, normalmente, si pensa che certe cose non possano succedere in un paesino come Arríu, invece, come dovrà scoprire Erminia, figlia di Tanièi e Rosètta, succedono. Piuttosto, per Tanièi non c’è solo come idea guida quella di vendicare un torto, ma c’è fortissimo la difesa della sua individualità per difendere la quale lotta e si scontra con il mondo: “io sono io, gli altri sono gli altri”, sentenzia molto semplicemente ma drasticamente.
Articolo originariamente scritto per il circolo “Sardegna” di Bologna
Caro Marco, con tanta premura mi hai fatto avere il tuo libro , ma io non l’ho letto e tu sai perché, si chiama Pietro ma non è tornato indietro
Cara Maria,
il libro ti arriverà presto. Candu mai, Maria chen’e su libru còsa mia?
Poi mi dirai le tue impressioni.
Salùdi mèda.
Lo scrittore ha uno spessore creativo immensamente complesso , impossibile dall’essere rilevato nella lettura.
Per quanto sia analitico il suo rappresentare protagonisti, ambienti, rapporti, trapela un infinitesimo di quanto egli, lo scrittore, vorrebbe descrivere.
Se io sono sardo la mia partecipazione alla complessità del racconto mi è assai più vicina , ma se sono ” straniero” la mia lettura poco si discosta da una superficiale comprensione puramente romanzesca, come si legge un qualsiasi testo.
Questo è il dramma dello scrittore come Piras.
Egli descrive 1000 conscio che il lettore assorbe 10.
La chiaccherata che ho letto mi dà ragione.
La descrizione, brevissima, dei contesti storici, di costume, di tradizioni locali che sono l’anima vera del romanzo evidenziano davvero, un poco, lo spessore culturale dell’opera.
Per comprendere questa importante opera letteraria occorrerebbe un prologo assai dettagliato, quindi un libro due, che nella nostra tradizione letteraria manca del tutto.
Fatto irragionevole e barbaro.
La chiaccherata mette in evidenza questa necessità e di conseguenza si comprende la carenza dello spiegare, del segnare dettagli culturali e di tradizioni.
Insomma per capire il romanzo di Piras, come anche di tanti autori che scrivono di personaggi legati alla loro terra , occorre, ma davvero sia obbligatorio, un secondo libro che racconti il romanzo.
Allora sarebbe stupendo rileggere il romanzo e se ne aspirerebbe la profondità, lo spessore, l’anima, una gioia infinita di essere lettore dentro la storia, partecipando culturalmente ed emotivamente.
Scrivere è un regalo assai complesso, un dono davvero di una intera cultura, leggere è una convivenza con tale cultura, una ricchezza immensa.