di PIERGIANNI ADDIS
Cento anni fa Grazia Deledda scriveva così, «Siamo sardi, siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi. Siamo le ginestre d’oro giallo che piovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese. Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto.
Siamo il regno ininterrotto del lentischio, delle onde che ruscellano I graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell’immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta» e nel discorso pronunciato al ritiro del Nobel raccontava l’ispirazione della sua scrittura nata come una canzone dalla voce delle foglie, dal racconto dell’acqua corrente, dal sorgere della luna nella immensa solitudine delle montagne.
Negli stessi anni D. H. Lawrence scriveva nel suo “Mare e Sardegna” l’unicità dell’isola. Non la retorica del posto più bello del mondo ma la realtà del suo essere diversa. Davvero non si sa da dove cominciare a parlar di Sardegna, e non è certo un caso che tanti scrittori famosi l’abbiano raccontata. Anche chi da ragazzo è corso tra gli asfodeli e si è arrampicato su per i massi di granito rotolati da disordini arcaici continua da adulto a cercare l’affiorare di Dolmen e Domus de Janas.
E si emoziona rileggendo le pagine di “Sardegna come un’infanzia” di Vittorini: perché la scoperta della Sardegna la si può fare prima attraverso gli scrittori che ne hanno detto. E che non sono sfuggiti al fascino ineludibile dell’Isola. Tanto Isola, inseguita dal salmastro del vento sin tra le alture dove il corbezzolo, il pitosforo e il mirto cedono alla roccia, e a volte dalla cima restituiscono la vista del mare.
Perché la Sardegna è tanto mare, spesso placido e trasparente, spesso e senza quasi preavviso tumultuoso di vento e di spume. Ma è difficile perderlo quel mare infinito anche quando ti allontani verso l’interno, e lo dimentichi attratto dalle forme suadenti e misteriose dei nuraghi, da un tempio romano che appare sorprendente in mezzo alla pianura, come Antas apparve a La Marmora nel 1836.
Indugi a contemplare il mistero dell’archeologia sarda, storie di un popolo antico, e di punici, e di aragonesi. Tiscali, monte Prama e i Giganti, l’eredità fenicia di Nora contesa dal Mediterraneo e dal Mediterraneo custodita per 28 secoli con la stele che per la prima volta reca il nome Sardegna.
Terra di luce vivida e profumi sottili, da percorrere in auto, in autobus, in bicicletta, a piedi. Che nasconde itinerari di inesausta bellezza. Avevo quarant’anni quando ne percorsi il tracciato che Mario Verin aveva disegnato con Peppino Cicalò, il “Selvaggio Blu”. Da poco avevo esplorato un trekking magnifico alle Isole Marchesi e stavo per avventurarmi in Cameroun nell’arcaico dei Monti Alantika, ma mai ho vissuto tanta bellezza.
E il mondo pastorale, la cucina antica ed emozionante di cui non ti stanchi mai. Il rito della bottarga: a Cabras ritrovi il profumo di quando in Mauritania vedesti i pescatori Imraguen contendere, subito sotto le dune, ai muggini e all’Oceano le uova che poi prenderanno in parte la via di Cabras, e accanto agli stagni del Sinis mani di una sapienza antica ne faranno la bottarga più buona del mondo
Quanta Sardegna, di miniere e movimenti operai, di poesia e ruvida prosa, di ricordi di bastimenti e lunghi silenzi, di coste dove sono emersi i sottomarini e dove la Sostenibilità diventa progetto di citizen science e ci si immerge per studiare la foca monaca. Una voglia pazza di aprire gli occhi nello charme di uno stazzo restaurato di fronte a un luogo di rocce e luce dove sai che da qualche parte corrono i mufloni.
Sardegna, come un continente…