di Omar Onnis
Neanche il tempo di sbarazzarsi dei rimasugli delle feste, ecco che ripiombiamo nella realtà. Com’è che la realtà è sempre triste, dalle nostre parti? Quasi per definizione: la “triste realtà”. Niente di strano dunque che, mentre duecento kilometri più a sud scoppiano tumulti per il rincaro dei beni di prima necessità (come da noi cento anni fa e forse ancora fra pochi anni), viene fuori la notizia che i sardi sono i più depressi tra i cittadini italiani. Non riesco a non ricondurre questo dato statistico (per altro non nuovo) alle notizie (anche queste poco sorprendenti) relative alle nuove indagini sanitarie nella zona del Salto di Quirra. Misteri, dati sull’incidenza di patologie neoplasiche (tumori) fuori norma, cortine fumogene da parte delle autorità, sostanziale impotenza, rassegnazione. Questo il quadro della situazione da quelle parti. Non da oggi. Il motivo per cui le due notizie mi sembrano collegate è che entrambe hanno attinenza con il senso di profonda frustrazione collettiva e dunque individuale in cui versiamo da troppo tempo. Frustrazione ormai metabolizzata, tanto da essere spontanea, connaturata in noi, non meritevole di analisi. Il senso di impotenza, di marginalità, di un’esistenza deprivata, grava sulle nostre anime come un peccato originale, ereditato dal passato senza che nemmeno riusciamo a ricondurlo a una colpa. Non riuscire a concepirci come collettività, non coltivare il senso di appartenenza alla nostra terra, non riuscire a iscrivere la nostra vicenda storica in un orizzonte che ci appartenga, agevolano il fatalismo e la rassegnazione, anticamera della depressione. Viviamo la crisi del presente come l’ennesima manifestazione, solo quantitativamente più intensa, di una crisi più profonda, che ci denota in quanto sardi. Prendiamo come esempio proprio la questione delle servitù militari. Dagli anni Cinquanta del secolo scorso la Sardegna è sottoposta a un regime di spoliazione del territorio e di sottrazione di risorse a cui si accompagna, sempre più evidentemente, un danno nella salute dei cittadini, cui non corrisponde più nemmeno il parziale risarcimento di qualche vantaggio occupazionale (tutto da verificare, ma solitamente accettato acriticamente come contropartita). Situazione che si riproduce pari pari nella questione delle servitù industriali. Decenni di passività in questo ambito non hanno certo prodotto una mentalità reattiva. L’inerzia rassegnata o persino colpevole della classe dirigente sarda non ha aiutato di certo a modificare la situazione. A tal proposito, la retorica rivendicazionista messa in campo a suo tempo dalla giunta Soru non ha sortito alcun effetto, come era da prevedersi. Se non si mette in discussione la stessa legittimità dell’occupazione militare del territorio sardo c’è poco da rivendicare. Il problema andrebbe affrontato alla radice, senza piagnistei del tutto inutili e anche mortificanti. Impotenza, dunque. Ma non impotenza come destino ineluttabile. La condizione di marginalità e insignificanza, così come l’ideologia della povertà endemica e delle sofferenze ineliminabili, fanno parte di un immaginario indotto, funzionale al mantenimento del sistema egemonico dominante. Non è affatto vero che la Sardegna sia una terra povera. Andiamo a raccontarlo a quelli della Valsugana o di certe zone del Veneto che siamo poveri: ci rideranno in faccia. O si offenderanno. Giustamente. La Sardegna non è mai stata povera. Certamente ha sofferto nel corso del tempo, sotto vari regimi economici e politici, di gestioni e distribuzioni delle risorse non sempre equilibrate. Ma è stata ed è fondamentalmente una terra impoverita, mantenuta artificiosamente in una condizione di depressione – appunto – civile ed economica. La depressione individuale di cui soffrono tanti sardi non è estranea alla autocommiserazione e al fatalismo così tanto diffusi, legati a loro volta a una condizione materiale sempre precaria. L’idea di essere “lontani” da ciò che di importante produce ed esprime il mondo (essere “fuori dalla Storia”), la percezione di una sorta di soffocante piccolezza, tanto economica quanto culturale, sono tutte false rappresentazioni della realtà su cui si basa l’ideologia mortificante che ci opprime, il mito tecnicizzato della sardità come “specialità” folclorica e residuale di qualcos’altro. Lavorare per destituire di fondamento questa mitologia della perenne sconfitta collettiva servirà anche a togliere alimento alla sindrome di inutilità del vivere di cui soffrono tanti di noi. Il riscatto storico, collettivo, sarà il tonico che contribuirà alla guarigione dei nostri spiriti malati.