SENZA PARTECIPAZIONE, NESSUN RISCATTO PER LA SARDEGNA DEI PAESI: LE PROPOSTE DEVONO PARTIRE DAL BASSO

di DANILO LAMPIS e SALVATORE LAI

Di “aree interne” se ne parla sempre di più, ma la politica latita. I comuni sardi ascrivibili a tali aree sono 315 su 377 (50,26% della popolazione isolana) e sperimentano un drammatico processo di contrazione demografica – effetto e causa di quella economica, sociale e culturale – in parte comune a gran parte delle aree rurali europee, in parte causa dei tanti volti della subalternità sofferta dall’isola nel quadro nazionale, nonché degli errori compiuti dalle classi dirigenti regionali.

L’analisi sul fenomeno è stata affrontata da diverse voci e reti, che spesso hanno ideato o raccontato esempi concreti di lotta allo stesso. Tuttavia, mancano proposte organiche provenienti dal basso, frutto di una consapevolezza matura e diffusa, imprescindibile per non ripetere i fallimenti degli ultimi decenni, che hanno visto ricette calate dall’alto dalla Regione o dallo Stato: i Piani di Rinascita ne sono la rappresentazione più evidente, avendo imposto un modello di sviluppo esogeno, fondato sulla monocoltura dei poli di sviluppo. Va registrata una importante novità delle ultime settimane: c’è chi sta iniziando a percorrere la strada della partecipazione dal basso, la Rete di Associazioni – Comunità per lo Sviluppo, una voce plurale composta attualmente da 22 associazioni, fortemente voluta dall’Associazione Nino Carrus.

In generale, serve una nuova presa di responsabilità della società sarda, che punti a una democrazia ad alta intensità capace di costruire un nuovo rapporto tra cittadini e istituzioni, con una redistribuzione orizzontale dei poteri e una partecipazione diffusa e costante. Le amministrazioni, le associazioni, le energie presenti e quelle emigrate, devono porsi l’obiettivo di definire un nuovo modello di sviluppo endogeno che risponda, tra le altre cose, all’obiettivo di rendere desiderabile la “restanza” e la “ritornanza” fissa o temporanea nei paesi. Un obiettivo che non nasconde alcuna competizione con i centri urbani, ma che semmai mira a rafforzarne la sostenibilità, approntando un nuovo equilibrio con la Sardegna dei paesi, nell’esaltazione delle reciproche potenzialità, coniugando in prospettiva territori e città “intelligenti”.

I temi da affrontare sono tanti: accanto alle questioni del “cosa” e del “come” si produce, investendo sui diritti di chi lavora, i saperi, l’innovazione tecnologica e la tutela dell’ambiente, si deve accompagnare la garanzia dei diritti di cittadinanza e il miglioramento delle infrastrutture materiali e immateriali e dei servizi. È decisivo essere consapevoli che, per combattere le cause e le conseguenze dello spopolamento, che è uno dei principali volti della nuova “questione sarda”, bisogna scommettere su una visione radicale, che risponda alle nuove sfide globali. I territori rurali presentano potenzialità sul piano produttivo, demo-etno-antropologico, urbanistico e ambientale che, in un doppio movimento di memoria e innovazione, possono farne uno dei laboratori privilegiati per sperimentare pratiche e strategie per un cambio di paradigma a livello sistemico. Proprio i paesi possono proiettarci in un futuro all’insegna di un nuovo modello ecologico di società, economia e convivenza, alternativo al modello egemone, estrattivista, energivoro e foriero di incredibili disuguaglianze sociali e territoriali. In definitiva, tra i nostri paesi e campagne ci pare di intravvedere molte più risposte alle sfide irrimandabili poste dal movimento Fridays for Future guidato da Greta Thunberg e dall’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, che nelle bulimiche “città globali”. Anche per questo, il riscatto dei primi dovrebbe assumere una centralità inedita nel dibattito pubblico isolano.

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