di FRANCO SONIS
In questi giorni di coronavirus, nelle persone più anziane, potrebbero tornare alla mente le storie tragiche rievocate dai loro padri che conobbero i momenti terribili di un’altra devastante epidemia diffusasi alla fine della prima guerra mondiale, la “Spagnola”, considerata “uno dei maggiori disastri sanitari che si abbattè sulla nostra terra”. Il terribile flagello provocò la morte di diverse decine di milioni di persone. Le nazioni coinvolte nella fase finale della guerra cercarono, in tutti i modi, di non far divulgare le gravi notizie sull’epidemia attraverso la censura sui mezzi di comunicazione.
Eugenia Tognotti, prof.ssa di Storia della Medicina all’Università di Sassari, nel suo volume “La Spagnola in Italia”, ricorda infatti la censura militare che tentava in tutti i modi di nascondere il dramma di quella terribile epidemia definita, appunto, “la guerra più sanguinaria della storia dell’umanità”. In tutto il mondo la “Spagnola” si manifestò inizialmente nella primavera del 1918, successivamente riprese vigore nell’autunno per continuare in modo drammatico nel corso dell’inverno del 1919. In Italia la Regione che ebbe in assoluto il numero maggiore di morti, fu la Lombardia (36.653), seguita dalla Sicilia (29.966), da Lazio, Sardegna e Basilicata. Fu senza dubbio una delle più grandi pandemie nella storia dell’uomo, dopo la peste nera della metà del Trecento. Nei resoconti medici le autopsie evidenziavano “polmoni rossi e gonfi, congestionati di sangue emorragico e ricoperti di una patina rosa e acquosa. Le vittime di quella influenza morivano soffocate dai loro stessi fluidi”. I medici potevano fare ben poco: si utilizzava il Ferrazone per abbassare la temperatura, la tintura d’oppio canforato (analgesico), per stimolare il sistema nervoso ed estratti dalla pianta Digitale per sostenere il cuore.
Da molte parti la Spagnola venne definita “un flagello di biblica ferocia”: solo in Italia si ebbero circa 600 mila morti (all’incirca lo stesso numero di vittime italiane nella prima Guerra Mondiale). In Sardegna l’influenza registrò uno dei più alti tassi di mortalità: a fronte di 13mila morti in guerra se ne ebbero 12mila falciati dalla Spagnola.
Paolo De Magistris, sindaco di Cagliari negli anni ’80, nella sua opera “Cagliari nella prima Guerra Mondiale” (ed. Fossataro 1976) scriveva: “…nell’ottobre 1918 esplode l’epidemia di influenza (la spagnola) che costerà alla Sardegna più vittime di quanto ne abbia prodotto la trincea. Polemiche, precisazioni, appelli alla difesa igienica, rimproveri a chi non ha provveduto in tempo rivelano che in realtà l’epidemia serpeggia almeno da alcuni mesi anche se l’atteggiamento ufficiale è reticente. Tutto in sostanza è normale. Ma ogni giorno muoiono di spagnola almeno quattro persone”.
L’Unione Sarde del 26 ottobre 1918, nella cronaca di Cagliari, pubblicava un lungo articolo dal titolo “L’influenza epidemica nella Provincia – I provvedimenti per la cura e la profilassi”. Il medico provinciale dott. Frongia presentava al Consiglio la propria relazione sull’andamento dell’epidemia nella provincia e i provvedimenti adottati; egli dichiarava che: “l’infezione comparve a Cagliari quasi certamente per via mare, sin dalla scorsa primavera del 1918, e si propagò lentamente senza assumere alcun carattere di gravità. (…) L’epidemia ebbe una più rapida diffusione durante il corrente mese in un centinaio di comuni; a tutt’oggi – proseguiva la relazione – i comuni colpiti dalla infezione sono 165 dei 256 che conta la Provincia. (…) Negli ultimi 15 giorni dal 5 ottobre, furono accertati 639 casi per influenza. A Cagliari nello stesso periodo di tempo morirono 30 persone, e di bronco-polmonite da attribuirsi ad influenza altre 41. I comuni più colpiti furono quelli di Lanusei, Tortolì, Arbus, Gonnesa, Tonara e Villamar”.
I nostri nonni ricordavano il passaggio della carretta (di manzoniana memoria) che portava via i cadaveri accatastati uno sull’altro, sui quali si spargeva la creolina e venivano sepolti all’interno del cimitero in fosse comuni. Questa drammatica esperienza porterà inevitabilmente verso una profonda trasformazione di valori, in cui pratiche sociali e relazioni abbandonate da troppo tempo, dovranno essere ripensate e ricostruite con altri parametri.
Tra loro anche mio zio morto a Livorno mentre tornava a casa in licenza