di NICOLO’ MIGHELI
Dopo il metodo Wuhan reinterpretato secondo i nostri principi liberali, per combattere la pandemia si vorrebbe adottare il metodo coreano. Il Veneto già da subito. Da quel che si legge si praticherebbe uno screening di massa in modo da rilevare i positivi asintomatici identificati come vettori del virus.
Nella metodologia dichiarata manca la seconda parte: quella del controllo, che si immagina verrebbe lasciata alle autodichiarazioni dei singoli; consapevoli, in caso di trasgressione, di incorrere in sanzioni penali gravi. Il metodo coreano, non dissimile a quello applicato a Hong Kong e Taiwan ha un altro passaggio. Ai singoli viene chiesto che i loro dati siano integrati in una banca, l’adesione è volontaria.
Una Corona-App presente nei telefonini, avvisa gli altri cittadini se si è in prossimità di un contagiato, oppure se sono nelle vicinanze di un’abitazione dove si è verificato un caso di Covid. Segnalerebbe subito l’eventuale rottura della quarantena. In tutto quel Paese, in ogni palazzo, strada, impresa, ufficio sono installate delle telecamere che tengono sotto controllo i flussi e i traffici.
E’ impossibile muoversi in qualsiasi spazio pubblico senza essere tracciati, anche gli amori clandestini non lo sono più di tanto. In Cina si è anche più drastici, si sta passando a telecamere con riconoscimento facciale- ormai le mascherine non sono più un impedimento- con sensori termici che leggono la temperatura corporea. Tutto governato da sistemi di Intelligenza Artificiale, che in brevissimo tempo possono far scattare gli allarmi.
Questi sistemi sono il frutto della lotta ventennale che l’Asia orientale ha messo in campo contro l’epidemia della Sars e della mentalità autoritaria di quei governi, compresi i liberali Corea e Taiwan. A noi occidentali, quella adesione volontaria, ci sembra rassicurante. Nonostante che da un quindicennio abitiamo quella che Deleuze definiva la Società del Controllo.
In maniera incosciente affidiamo i nostri dati al web, siamo tracciati, in ogni cosa che facciamo, però consideriamo la privacy un valore. Abbiamo istituzioni che cercano di difenderla. Finché il web ha utilizzato i dati per segmentare i nostri comportamenti d’acquisto non ci siamo preoccupati più di tanto, però siamo stati molto attenti ai nostri dati sanitari, tanto che le leggi impediscono che una persona possa chiedere del nostro stato di salute se non autorizzata espressamente da noi.
La nostra cultura giudaico-cristiana-illuminista ha fatto dei diritti dell’individuo il centro della vita sociale. Se da noi volontario significa che possiamo anche sottrarci, il volontario, nelle società di cultura confuciana è obbligo sociale. In Paesi democratici come la Corea ci si può sottrarre, però il costo è l’emarginazione sociale. Perché la cultura confuciana mette al centro la comunità, l’individuo è tale solo se è utile e funzionale ad essa.
Noi mettiamo le mascherine per non essere contagiati, loro lo fanno per il motivo opposto. In quelle culture è interiorizzato il rispetto dell’autorità, ci si fida delle istituzioni che hanno in sé principi percepiti come divini. Se Xi avesse perso a Wuhan, i cinesi l’avrebbero letto come l’abbandono del Cielo, l’aura sacrale della sua autorità si sarebbe infranta e il disordine avrebbe regnato.
Sono società dove la privacy come noi la intendiamo non esiste e non se sente il valore. In Cina si possono imporre sistemi che valutano al condotta sociale degli individui. Si premiano i virtuosi e si puniscono chi infrange le regole, che in quel Paese possono includere un post sgradito al governo nei social o la lettura di determinati libri o giornali anche se consentiti dalla censura. Quel punteggio diventa essenziale per accedere ai servizi, ma anche per muoversi.
La pessima reputazione digitale può ad esempio impedire un volo, un viaggio in un treno ad alta velocità; può vietare al figlio del reo la frequenza di una università. Un regime poliziesco accettato perché trae il suo fondamento nei principi di Confucio. Quanto metodi simili siano compatibili con le nostre costituzioni, con le nostre basi culturali? Con una società sempre più individualistica? Anche se lo fossero, sia consentito il dubbio, chi gestirà i Big Data? In che server verranno ospitati e in quale paese? Quali garanzie che non vengano venduti a terzi o usati come arma di ricatto?
Il virus è sicuramente il concentrato delle nostre paure contemporanee, è invisibile, è in ogni luogo, ogni rapporto umano può essere contagioso. Si ripropone la domanda che dall’11 settembre risuona nelle nostre menti, quanta libertà personale siamo disposti a cedere per la sicurezza? Siamo già abituati a cedere, tanto che i controlli negli aeroporti ci danno solo fastidio.
Sappiamo che restare vittima di un attentato è ipotesi molto rara, con il virus è differente può essere ovunque. Siamo anche consapevoli che i governi potranno usare le nostre paure per accrescere il controllo, una volta verificata l’efficacia non verrà abbandonato anche quando Covid- 19 verrà sconfitto.
Ci sarà sempre un altro virus e una bio-politica digitale con una psico-politica delle reti. Questi sono i termini del problema che investono non solo la salute pubblica ma la democrazia, il nostro essere liberi e soggetti decisori. Carl Schmitt nel suo Politische Teologie scriveva: è sovrano colui che decide sullo stato di eccezione. Il filosofo coreano Byung-Chul Han, docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste a Berlino, sostiene che quel celebre detto andrebbe riformulato: sovrano è chi gestisce i Big Data. Questi sono i tempi, queste le questioni.
Molto interessante. Grazie, Nicolò.