di OMAR ONNIS
Le epidemie hanno da sempre fatto emergere le peggiori pulsioni della nostra specie. Lo raccontano molto efficacemente tutti gli storici e i narratori che se ne sono occupati, da Tucidide a Camus. Le epidemie fanno anche venire a galla l’insipienza, l’egoismo e le peggiori pulsioni di chi detiene ruoli di potere. Accettare tutte le misure governative e la loro declinazione pratica senza esercitare il nostro senso critico non è mai una scelta ragionevole.
Esercitare il nostro senso critico, ho scritto, non farsi prendere dal panico e dalla paranoia. Lasciamo da parte e anzi consideriamo dei veri “nemici del popolo” tutti i complottisti e gli agitatori di diversivi. Restando sul terreno fattuale e entro i confini della ragionevolezza, non si può prescindere dall’intima complessità e contraddittorietà dei fatti umani.
Non c’è niente di facile, gente, è inutile che cerchiamo di ridurre tutto a disegnini elementari e a schemi facili facili. Prendiamo la faccenda della transumanza fuori stagione dal Nord Italia alla Sardegna.
In Italia non ne ha parlato nessuno fino al 13 marzo. Fin qui si parlava di studenti e lavoratori stagionali meridionali irresponsabilmente rientrati nelle loro famiglie d’origine.
Oppure si parlava sì di vacanzieri del coronavirus, ma in riferimento ad altri territori. Per esempio, riguardo alla Toscana, il cui presidente regionale – Enrico Rossi, PD – ha caldamente invitato lombardi ed emiliani proprietari di seconde case a tornarsene da dove sono venuti.
Di Sardegna ne parla adesso Selvaggia Lucarelli (sapete chi è, dai): E poi c’è la Sardegna. In fondo ai pensieri di tutti, lontana quel solito braccio di mare che pare infinito, preoccupazione di pochi e, con una pandemia in corso, occupazione di nessuno. Perché nessuno pensa alla Sardegna, alla fragilità una regione che sembra più al riparo di altre e che invece ha paura. Sono passati pochi giorni da quello sgangherato, incivile assalto ai treni che da Milano portavano al Sud e quel Sud era il fondo dello stivale, compresi i 30 minuti che lo separano dalla Sicilia. Quel Sud anomalo, che sta verso occidente, quel Sud di cui ci ricordiamo solo quando prenotiamo le vacanze al mare e che il resto dell’anno se la vede da solo, nessuno s’è chiesto cosa faccia, come si prepari all’emergenza. Eppure anche lì, anche in Sardegna è arrivato l’egoismo del “continente”, anche lì i medici pregano, tutte le notti, di non ritrovarsi il pronto soccorso affollato all’improvviso, di non dover combattere una guerra più disarmati che altri, più lontani di tutti. In migliaia, nei giorni in cui s’è capito che il virus era arrivato e anche dopo, quando non ci sarebbe stato più il tempo per scappare, sono scappati in Sardegna. Qualcuno- chi in Sardegna ci va in vacanza e si è potuto permettere la fuga benestante- ha giocato d’anticipo, occupando le seconde case i primi di marzo, popolando residence e paesini che d’inverno sono deserti, dalla Gallura ad Alghero al sud dell’isola. Altri, quelli che “in continente” ci lavorano ma hanno le famiglie lì, hanno partecipato al grande assalto, quello finale e scomposto dei giorni scorsi e si sono lanciati sui traghetti con le macchine piene di pacchi e valigie o su aerei strapieni di cui nessuno ha scritto. E’ accaduto anche questo, sebbene nessuno ci abbia fatto caso. Dal nord e resto d’Italia, in questi giorni lì si sono autodenunciati in 13 300 (sia residenti che non residenti), ma l’esodo era iniziato molto prima. Lo scorso weekend molte località tra cui Pula e Villasimius erano affollate come durante le vacanze estive. “Sono incavolato nero, se questo esodo l’avessimo fatto noi, ci avrebbero tirato le bombe”, ha commentato il sindaco di Villasimius Gianluca Dessì. Certo, chi è arrivato negli ultimi giorni ha l’obbligo della quarantena, ma quelli arrivati prima? […] (sul Fatto quotidiano)
Ne parla anche Repubblica, sorprendentemente. Con un certo dettaglio e in modo abbastanza corretto (merito della cronista, chiaramente). Ne ha parlato anche la conduttrice e attrice sarda Geppi Cucciari, a quanto sento, ma solo per stigmatizzare il rientro in Sardegna dei sardi emigrati al Nord per studio o per lavoro.
Non so se sia vero, spero di no. In ogni caso su questo punto qualcosa va detta.
Se sei studente fuori sede, le spese che affronti sono necessarie al tuo mantenimento e finalizzate al percorso di studi. Trattandosi di spese quasi sempre ingenti (locazione di un alloggio, spostamenti, pasti, necessità quotidiane, libri, svago), ben poche famiglie possono permettersi di sostenerle senza motivo.
Certo, sarebbe stato meglio resistere alla tentazione di tornare a casa. Ma rendiamoci conto che questo discorso, in pratica, vale solo per chi può permettersi la scelta. Ossia, non tutti, probabilmente pochi.
Quanto ai lavoratori stagionali, va precisato che quasi sempre le loro possibilità di sopravvivenza dipendono direttamente dal lavoro, senza il quale non hanno reddito né, spesso, alloggio. Cosa diavolo avrebbero dovuto fare? Poi ci sono anche le teste di rapa, certo. La stupidità umana è equamente distribuita ed è anche sempre sottostimata, come insegna Carlo M. Cipolla.
Il discorso dei lombardi, veneti, emiliani e piemontesi in fuga dal virus e approdati in Sardegna naturalmente è diverso. E spero non ci sia bisogno di spiegare perché.
Diciamo che avremmo fatto volentieri a meno di questa dimostrazione, preterintenzionale e istintiva, di mentalità colonialista diffusa.
Resta il fatto che ormai i vacanzieri dell’epidemia ci sono e sono anche molti. Le proposte di rispedirli al mittente sono irrealistiche, specie per ragioni pratiche, visto anche il blocco degli spostamenti.
Quanto alla gestione dell’eventuale contagio, il criterio della residenza nell’isola per essere ammessi alle cure, in caso di necessità, è scorretto di suo e rischia anche di penalizzare diversi sardi, che magari, per comodità, hanno la residenza anagrafica fuori dall’isola.
Il criterio etnico, invece, è semplicemente inaccettabile.
Certo, i controlli vanno fatti e le quarantene imposte, in modo drastico e senza sconti. Su questo bisognerebbe essere decisamente più attivi. Cosa che però è difficile pretendere dalla politica istituzionale sarda, che è quel che è. Ossia, quella che negli ultimi vent’anni (almeno) ha scientemente debilitato la sanità pubblica, da un lato trasformandola in un pascolo clientelare, e da un altro favorendo spudoratamente la sanità privata.
Insomma, non è una situazione facile da nessun punto di vista, ma almeno cerchiamo di mantenere distinti i piani. La solidarietà e i diritti umani non possono essere messi in discussione, a meno che non la vogliamo davvero finire peggio di come l’abbiamo iniziata.
C’è poi la questione delle misure governative e della loro applicazione pratica.
Su questa faccenda le analisi e il dibattito, almeno in alcune sedi (per esempio qui), sono in corso.
Riguardo alla Sardegna, le inquietudini se possibile aumentano.
Sappiamo bene quale sia il trattamento ordinario riservato all’isola da parte della politica italiana e dei governi centrali. A parte la proclamazione ufficiale dello status di colonia oltremarina, tutto il resto è stato e continua ad essere fatto, con la massima nonchalance.
E qui non è incongruo inserire la domanda – retorica, ma fino a un certo punto – su cosa sarebbe successo se il contagio, per una ragione qualsiasi, fosse iniziato in Sardegna, e non in Lombardia.
Non serve troppa fantasia per immaginarlo.
Al di là di questo, è lecito ed anzi doveroso vigilare con la massima attenzione sulla declinazione sardo-coloniale delle misure governative.
Non solo degli ultimi decreti, ma anche di decisioni prese in precedenza ma che oggi assumono un significato puntuale decisamente e concretamente allarmante.
Per esempio l’estensione alle forze armate dei poteri di Pubblica Sicurezza.
Sul punto, il comitato “A Foras – Contra s’ocupatzione militare de sa Sardigna”, ha scritto un post su Facebook in cui esprime una legittima preoccupazione per l’ipotesi di impiego delle forze armate nelle attività di polizia.
Ci piacerebbe
dire che si tratta di fantascienza, ma purtroppo quello scenario oggi non è per
nulla irrealistico.
Negli scorsi giorni il governo italiano ha introdotto questa possibilità, pur
senza fargli alcuna pubblicità, nella legge n° 13 del 5 marzo “misure urgenti
in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica COVID-19”. Infatti,
mentre il DPCM dello scorso 23 febbraio veniva trasformato in legge, il testo è
stato modificato prevedendo esplicitamente che i Prefetti, rappresentanti del
governo italiano nelle diverse province, possano attribuire la qualifica di
agente di pubblica sicurezza al “personale delle Forze Armate”, impiegandolo per
far rispettare le misure di contenimento dell’epidemia previste dalla legge. Per
questo motivo, come ribadito anche da una circolare del Ministero dell’Interno
del 12 marzo, i prefetti potranno conferire ai militari gli stessi poteri degli
agenti di polizia, dispiegandoli nelle nostre strade per far rispettare i
limiti alla libera circolazione dei cittadini. Un articolo dell’Espresso del 13
marzo parla esplicitamente di utilizzo dell’esercito per pattugliare le strade
e sedare caos e disordini. Secondo l’articolista, questo scenario sarebbe reso
possibile dalle forti preoccupazioni del governo e dei vertici militari e dalla
volontà di tenersi pronti ad ogni evenienza. L’articolo inoltre fa esplicito
riferimento alle rivolte scoppiate recentemente in decine di carceri e subito
represse, che hanno visto la morte di 16 detenuti. I militari sono stati
utilizzati con funzioni di pubblica sicurezza diverse volte a partire dagli
anni ’90, e da alcuni anni con l’operazione Strade Sicure sono dispiegati oltre
7.000 soldati in molte città italiane. Quei soldati però fino ad ora potevano
intervenire solo in caso di palese minaccia, mentre da ora in poi potranno
effettuare controlli in modo attivo, esattamente come i poliziotti e i
carabinieri.
Non si tratta quindi di una novità assoluta, ma di una lenta trasformazione in
chiave militarista della nostra società: in questo contesto la situazione di
emergenza dettata dall’epidemia potrebbe venire utilizzata per imprimere
un’accelerazione ulteriore, contribuendo ad abituare la cittadinanza a misure
straordinarie che potrebbero essere utilizzate in futuro, anche in situazioni
che nulla avranno a che fare con i virus e le epidemie. […]
Non sono elucubrazioni cervellotiche, né teorie del complotto. Tutto l’insieme di dispositivi e di decisioni messo in campo dagli organi di governo deve essere sempre sottoposto a vaglio critico, ribadisco. Non possiamo abdicare dal ruolo di cittadini attivi e consapevoli.
Non possiamo né dobbiamo rinchiuderci nella dimensione privata e individualista, per altro condita con dosi massicce di nazionalismo e sciovinismo all’italiana, a cui sembra volerci ridurre la pressione egemonica esercitata da politica e mass media, con tanto di intellighenzia organica a supporto.
Non dobbiamo cadere nei tranelli e nei diversivi.
Deve essere chiaro e acquisito che questa crisi sta mostrando didascalicamente quanto siano infondati i precetti dell’ideologia neoliberista e padronale dominante.
Globalizzazione affaristica, mano invisibile, effetto sgocciolamento, meritocrazia, individualismo, darwinismo sociale sono tutte formule di successo, che però oggi un invisibile microorganismo fa improvvisamente apparire per quello che sono: vuoti e insensati feticci ideologici.
Anche questa, insieme alle altre, è una lezione che dovremo tenere a mente quando la crisi sarà passata o sarà almeno diventata gestibile.