IL MARCHESE SENZA TESTA: LA LEGGENDA CAGLIARITANA DI DON JAIME ARTAL DI CASTELVI’

di ROBERTA CARBONI

Tra le tante leggende cagliaritane a sfondo noir si racconta ancora oggi che tra le strette viuzze del Castello – per secoli quartiere residenziale dei nobili feudatari – si aggiri una misteriosa presenza: ad annunciarne l’arrivo, tra l’eco dei passi che si disperde tra le mura dei palazzi aviti, è un sinistro ed inconfondibile rumore di catene trascinate sui ciottoli delle strade, che accompagnano il suo lento incedere.

Si tratterebbe di don Jaime Artal di Castelvì, marchese di Cea, che ancora oggi vaga in cerca della sua testa mozzata durante una plateale esecuzione pubblica avvenuta il 15 giugno del 1671 nell’antica “Plazuela”, attuale Piazza Carlo Alberto a Cagliari.

Chi era costui e cosa fece di tanto grave da meritarsi la decapitazione pubblica? Jaime Artal di Castelvì nacque a Cagliari il 27 dicembre 1606. La sua fu una vita avventurosa e affascinante, che lo portò spesso a lottare per la sua salvezza. Avviato già giovanissimo alla carriera militare, partecipò alle battaglie per il Monferrato e nelle Fiandre col grado di capitano di fanteria e sergente maggiore. Intorno al 1639 fece ritorno in Sardegna per succedere al padre nella carica di procuratore reale, ma nei pressi di Alghero fu assalito e catturato dai corsari per essere ceduto al bey di Algeri. La sua liberazione costò al regno un riscatto di 20.000 reali.

Preso finalmente possesso della carica, alla morte del padre, nel 1650, gli successe anche nel titolo di marchese di Cea. Da qui si dedicò alla gestione dei feudi di famiglia e alla carriera politica, finché, nel 1668, le ostilità tra la nobiltà feudale e la corona di Spagna si acutizzarono a seguito del brutale delitto di suo cugino Agostino di Castelvì, marchese di Laconi, che fu assassinato nell’attuale via La Marmora la notte del 20 giugno.

Il fatto, oltre a gettare la città nel terrore, comportò l’inasprirsi di lotte intestine tra famiglie rivali che parteggiavano per l’una o per l’altra parte, a seconda degli interessi coinvolti.

La tensione tra la fazione parlamentare ostile al viceré e quella regia vicina alla Corona crebbe a tal punto che ad appena un mese di distanza dal delitto di Castelvì si verificò un altro brutale attentato che, stavolta, costo la vita al viceré don Manuel de Los Cobos, marchese di Camarassa. Il fatto, passato alla storia come “la congiura di Camarassa” segnò il culmine del malcontento della classe dirigente verso il governo regio. Tutt’oggi non si conoscono con certezza i colpevoli, né i mandanti, né le motivazioni che portarono all’omicidio, ma all’epoca si individuarono sette congiurati, i cui nomi, cognomi e titoli nobiliari, furono riportati a chiare lettere in un’epigrafe affissa ancora oggi in via Canelles. Tra questi, don Artal de Castelvì fu ritenuto la vera mente del complotto.

Il nuovo viceré, don Francesco Tuttavila duca di San Germano, era più che mai determinato ad accelerare le operazioni giudiziarie, temendo possibili ulteriori sommosse.

Decise quindi di chiudere il processo in corso presso la Reale Udienza – il tribunale supremo del Regno di Sardegna – e aprirne un altro, basandosi su alcune testimonianze e sulla evidente logica dei fatti.

Il delitto del viceré Camarassa avvenne in un lembo di terra compreso tra le abitazioni di Antonio Brondo – da cui partirono i colpi mortali – donna Francesca Zatrillas e don Francesco Cao. Questo bastò per addurne il coinvolgimento. Ad ordire il complotto, secondo quanto emerge dal processo, era stato don Artal di Castelvì che, per vendicare la morte del cugino e rovesciare il governo viceregio, aveva preso accordi segreti con alcuni membri del Consiglio d’Aragona per architettare un colpo di Stato.

Così, con bando del 23 maggio 1669, affisso aCagliari e Sassari, si dava mandato per la cattura dei congiurati, condannati alla confisca dei beni, alla demolizione delle abitazioni e alla pena capitale. Furono poste grosse taglie sulle loro teste e la promessa di salvezza e fortuna a vita a chiunque li avesse consegnati, vivi o morti, al governo; al contrario, la stessa condanna a morte sarebbe toccata a chiunque avesse offerto loro rifugio e assistenza.

Diramato l’ordine di cattura, i congiurati si dileguarono e tentarono la fuga, dapprima separandosi per poi riunirsi. La loro cattura avvenne in momenti e in circostanze diverse. Donna Francesca e don Artal riuscirono a fuggire a Nizza, sotto la protezione del duca di Savoia. Ma se donna Francesca, consapevole dell’impossibilità di fare ritorno in Sardegna, si ritirò in convento diventando una nobile benefattrice, don Artal cedette alle lusinghe di un funzionario regio, tale Giacomo Alivesi, che lo convinse a tentare uno sbarco sulle coste settentrionali della Sardegna, tendendogli un agguato.

Gli prospettò, infatti, di partecipare ad un piano di rivolta contro il governo, facendogli presente che i suoi compari erano già in Gallura che lo aspettavano per preparare la rivolta. ContemporaneamenteSilvestro Aymerich, Francesco Cao e Francesco Portugues furono decapitati il 27 Maggio 1671in Gallura. Le loro teste, svuotate e riempite di sale, furono esposte a Sassari e poi issate su tre lance alla testa di un lungo corteo di cavalieri che riprendeva il viaggio verso Cagliari.

Il marchese di Cea e il suo servo Francesco Cappai, invece, furono mantenuti in vita, con quel poco di cibo e acqua che ne avrebbe garantito la sopravvivenza. Il macabro corteo raggiunse Cagliari in12 giorni e si radunò sotto la torre dell’Elefante, dove i due sopravvissuti furono imprigionati per poi essere giustiziati sei giorni dopo.

Arrivati a Cagliari il 9 giugno, si riaprì frettolosamente il processo contro di lui e il 12 fu pronunciata la sentenza definitiva di morte per decapitazione.

Il 15 Giugno 1671 nell’attuale Piazza Carlo Alberto, antica Plazuela deputata all’esecuzione capitale dei nobili, Francesco Cappai fu torturato e ucciso per mezzo della ruota medievale e don Artaldo fu decapitato al cospetto della folla. Le teste mozzate dei tre congiurati furono rinchiuse dentro una gabbia in ferro ed esposte sulla torre dell’Elefante per 17 anni, finchè il vicerè Nicolò Pignatelli Aragon ne richiese la rimozione.

Ma l’esposizione delle teste non fu l’unico monito per la popolazione. Un’altra importante testimonianza, meno effimera della carne e destinata a durare fino ad oggi, fu affissa nel luogo del delitto Camarassa. Si tratta di un’epigrafe che riporta in lingua spagnola i tristi fatti del Luglio 1668, nonchè i nomi dei congiurati e l’accusa di “lesa maestà”.

Dopo la morte per decapitazione, il corpo del defunto don Artal fu preso in consegna dalla Confraternita di Santa Maria del Monte di Pietà, che si occupò del suo funerale. La salma fu tumulata all’interno dell’omonima chiesa sede della confraternita nell’attuale via Corte d’Appello.

Tuttavia, si dice, la testa del marchese scomparve e non fu più trovata. Altri ancora, invece, sostengono che sia stata affissa insieme alle altre sulla Torre dell’Elefante.

Questa notizia ha fatto nascere alcune leggende popolari che parlano di un uomo senza testa che si aggira ancora oggi, in prossimità della data dell’esecuzione, tra la Torre dell’Elefante e la Plazuela, ripercorrendo quell’ultimo storico tragitto di morte.

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